giovedì 6 settembre 2018

Università - Così è, "punto e basta"; metodi di dimostrazione alternativi


Studente straniero significa studente di università straniera. “Punto e basta. Lei non aveva inteso così? Pazienza, questo è il senso e così si applica e non è che i regolamenti possono trasformarsi in funzione di chi li legge.“



Credo sia stata quest’affermazione – insieme all'invito a rivolgermi al tribunale – che mi ha spinto a pensare seriamente che sarei andato avanti portando la questione in tutte le sedi opportune senza dar peso all’effort che ciò avrebbe richiesto. Sempre quella comunicazione mi ha fatto perdere interesse al riconoscimento economico, così da dichiarare che in caso di assegnazione l'avrei devoluto in beneficenza.

I genitori con i figli piccoli sovente utilizzano l’espressione “Punto e basta”. La mia opinione personale è che non sia un’affermazione da utilizzare verso chi ha più che ben argomentato con documentazione a supporto la sua tesi; specialmente se a supporto della propria non si porta nessuna documentazione pre-esistente.

Eppure si tratta dell’ambiente accademico/universitario dove ho acquisito importanti competenze e che mi ha permesso di fare esperienze personali, anche internazionali, di alto livello. In quell'ambiente durante i miei anni di studi ho incontrato validissimi professori, personale ausiliario molto disponibile ed ho avuto il piacere di condividere momenti di ripasso e preparazione di esami con colleghi studenti, amici, che ora lavorano in Google, Facebook o in altre importanti realtà in Italia o all'estero. Devo molto all'Università degli studi di Trento; sono il primo a riconoscerlo e spero che l’aver documentato questa vicenda contribuisca a migliorare ancora l’ateneo trentino.

In quell'ambiente, internazionale, a me tanto caro le dimostrazioni si fanno in altro modo; nella mia esperienza universitaria nessun docente ha mai risposto alla domanda argomentata di uno studente: “è così, punto e basta”. Nessuno ha mai sostenuto che un lemma di un teorema fosse “indiscutibile”, per poi senza ammettere che “indiscutibile” non fosse modificarlo, argomentando che era divenuto “fraintendibile”. Proprio perché l’università mi ha formato al metodo scientifico non riesco ad accettare spiegazioni d’imperio o pressapochiste.



“I believe in evidence. I believe in observation, measurement, and reasoning, confirmed by independent observers. I'll believe anything, no matter how wild and ridiculous, if there is evidence for it. The wilder and more ridiculous something is, however, the firmer and more solid the evidence will have to be.”





Questa è una delle mie citazioni preferite, attribuita ad Isaac Asimov. Nella sua semplicità spiega il problema alla base di questa questione. Uno dei prerequisiti da soddisfare per far parte dei laureati premiabili, presenti nella normativa approvata dal Senato Accademico rispetto al premio di merito, recita(va): non essere studente straniero inserito in un progetto di mobilità in entrata (ad es.: doppia laurea, LLP-Erasmus, ecc.)”.



Non ho idea delle caratteristiche fattuali e oggettive che voi attribuireste ad un soggetto che definite “Studente Straniero”. Quello a cui tengo però è il ragionamento, le osservazioni e la documentazione che riuscite a sviluppare per sostenere la vostra argomentazione. Se, ad esempio, le caratteristiche fattuali da voi individuate fossero “soggetto con indicazione del luogo di nascita diverso da Trento (Gerarchia fonti per ordine di importanza: Passaporto, Carta d’identità, Certificato di nascita)” e all'interno della normativa, in particolar modo della sezione “Definizioni” (presente nel documento), vi fosse la voce “Studente straniero: soggetto con indicazione del luogo di nascita diverso da Trento (Gerarchia fonti per ordine di importanza: Passaporto, Carta d’identità, Certificato di nascita)” avreste alla base della vostra assumption un ragionamento, un documento a supporto e una logica di disambiguazione (i.e. confutazione con documenti che provano l’identità del soggetto e l’attributo fattuale da verificare) che esclude casi ambigui. Nella normativa approvata dal Senato Accademico, è presente una sezione “Definizioni” dove però non compare la voce “studente straniero”. Non compare probabilmente perché il significato di “studente straniero” dovrebbe essere “ovvio”.    



Quando ero piccolo internet era ancora agli albori e la conoscenza era racchiusa in volumi spessi, dizionari e enciclopedie, ricordo ancora quando andavo in biblioteca a fare le ricerche. Ebbene il Treccani e il Garzanti (chiaramente in versione digitale) sono stati il mio primo punto di riferimento quando la mia caratterizzazione è stata messa in discussione con una interpretazione (fornitami senza attributi precisi), a mio modo di vedere,  differente da quella che il lettore del regolamento (e.g. un padre di famiglia che a 60+ anni valuta se riuscirà a mantenere la figlia all'università) potrebbe effettuare.



Credo che tutti voi abbiate una vostra idea delle caratteristiche che definiscono uno “studente straniero” senza consultare un dizionario. Probabilmente avete sentito notizie che riguardano studenti stranieri in qualche telegiornale, letto qualche articolo su un quotidiano ed avrete quindi la vostra opinione circostanziata basata sull'uso comune fatto di tale termine. Provate quindi, per gioco, a chiedere a vostro marito, a vostro figlio, ad un vostro collega di lavoro che significato attribuiscono a “studente straniero”.



Se qualcuno vi risponde che studente straniero è uno studente cittadino di uno stato estero probabilmente ha preso spunto dal dizionario; “straniero” quando attribuito ad una persona, secondo diffusi dizionari (e.g. Treccani, Garzanti), assume il significato: “che appartiene per cittadinanza a uno stato estero (e.g. “i turisti stranieri in Italia”)”. Se qualcun altro vi risponde che studente straniero è uno studente internazionale che necessita di visto di ingresso in Italia per soggiorni di lungo periodo, probabilmente è in linea con il MIUR ed in particolare con il portale “Studenti Stranieri” , dove così viene definito l’ambito di applicazione delle procedure per i soggetti a cui è dedicato il portale (i.e. gli Studenti Stranieri). Se invece vi dice che gli studenti stranieri rientrano in queste tre categorie: “cittadini non UE che vivono all'estero”, “cittadini non UE già soggiornanti in Italia (compresi nelle categorie di cui all'art. 26 l. 189/2002)”, “cittadini UE o italiani con titolo di studio estero”, probabilmente si è letto la “Guida alla carriera e ai servizi aglistudenti (Anno Accademico 2013/2014) - Università degli Studi di Trento” all'interno della quale il prospect/studente trova le informazioni - descritte in 94 pagine - relative alla maggior parte degli aspetti nei quali può essere coinvolto nella vita universitaria (compreso il Premio di Merito), ed ha notato una categorizzazione di “studente straniero”.



Rispetto a queste definizioni un cittadino italiano, residente in Italia, con titoli di studio conseguiti in Italia non risulta essere studente straniero. Le definizioni desumibili dalla “Guida alla carriera e ai servizi agli studenti (Anno Accademico 2013/2014) - Università degli Studi di Trento” o dal portale “Studenti Stranieri” risultano inoltre a mio avviso pertinenti all'ambito universitario e in particolare all'Università degli Studi di Trento. Infine, suppongo siano compliant con regolamenti, normative e leggi di rango superiore.



Se qualcuno vi risponde che “studente straniero” significa “studente di università straniera”, chiedetegli gentilmente per mio conto un qualche riferimento documentale precedente al 2014 che indichi quali sono gli attributi puntuali propri di un soggetto perché sia categorizzabile come studente di università straniera. Chiedetegli inoltre a che titolo la sua fonte documentale dovrebbe aver maggior valore di quelle sopra esposte rispettivamente pubblicate dall'Università degli Studi di Trento e dal MIUR. Ve lo chiedo perché ad oggi, dopo reiterate richieste in questo senso non ho risposte a queste domande.


Forse però interrogarci sul significato della voce “Studente straniero” è ormai uno sforzo futile. In seguito agli stessi ragionamenti, posti a diversi interlocutori dell’amministrazione universitaria qualcosa si è smosso. Il 10 maggio 2017 la normativa è stata modificata e l’attributo “straniero” scompare così dal documento. Il prerequisito viene modificato da:


a:




I regolamenti quindi non possono “trasformarsi in funzione di chi li legge”, ma l’università può modificarli; anzi può darne "un’interpretazione autentica” con valore retroattivo. Così “siccome qualcuno ha pensato di contestare questa (ovvia) interpretazione del termine "studente straniero" (come appunto il dott. Tait ha fatto) abbiamo modificato il regolamento per evitare di perdere tempo nel dare spiegazioni a chi non fraintendeva”.

Chiaramente, nel fare quest’operazione considerata di semplice “restyling”, nessuno ha pensato di informare chi aveva chiesto lumi riguardo all'applicazione di quel prerequisito specifico; modificato proprio a causa delle richieste di chiarimenti. E perché avrebbero dovuto avvisare? “La modifica è solo formale, non sostanziale” in quanto “il regolamento NON è stato modificato nel significato, ma solo nella forma per evitare ambiguità”.
   
Sempre tornando ad Isaac Asimov e all'importanza del ragionamento e delle evidenze mi chiedo perché se “l’interpretazione del termine studente straniero” sia “ovvia” e solamente una persona la contesta “(come appunto il dott. Tait ha fatto)” sia necessario modificare un regolamento che è rimasto invariato in quella sezione per anni. Trovate anche voi che effettuare una modifica per soddisfare il bisogno di “evitare di perdere tempo nel dare spiegazioni a chi non fraintendeva” sia per lo meno bizzarro? Quali spiegazioni avrebbero dovuto dare “a chi non fraintendeva” l’(ovvia) interpretazione del termine “studente straniero” da loro supportata? Ma soprattutto, perché  “chi non fraintendeva” avrebbe dovuto chiedere una spiegazione?

Vi invito comunque a rileggere il prerequisito pre e post modifica e provare a motivare, sempre attraverso un ragionamento articolato, che la modifica sia solo formale, ossia che i soggetti esclusi dal prerequisito pre e post modifica siano gli stessi. Mi spiace, ma nonostante abbia superato corsi di matematica discreta che trattano ampiamente l’insiemistica, io non ci riesco. Non riesco nemmeno a trovare in quale punto abbiano sostituito "Studente straniero" con "Studente di università straniera". La sostituzione è stata: Trova: "studente straniero" (occorrenze 1) Sostituisci con: "studente". 

La modifica del secondo prerequisito e l’interpretazione fornita di “studente straniero” sono solo due delle fattispecie che ho confutato. Forse dai virgolettati riuscite a capire il perché ho messo particolare impegno nel portare questa fattispecie ad essere discussa nel maggior numero possibile di sedi opportune. Non vado oltre, il video sottostante, senza alcun commento audio per non influenzare l'opinione di chi vorrà valutare autonomamente, ripercorre e documenta la modifica del prerequisito.


Termino questa analisi che, come credo abbiate potuto apprezzare, non vuole essere né filosofica né politica. Non si tratta di preferenziare soggetti sulla base di convinzioni politiche né di polemizzare sulle regole stabilite nella normativa che filtrano la platea premiabile. Si tratta della semplice applicazione di regole di un’offerta formativa. Il prospect che si immatricola ad un particolare corso di un determinato ateneo lo fa valutando costi/benefici e svariate altre fattispecie rispetto al pacchetto che l’ateneo offre. Modificare questo pacchetto a posteriori, specie in una caratteristica economica, non è corretto nei confronti di chi quel pacchetto lo ha valutato e si è impegnato a raggiungere determinati obiettivi per poi non ricevere quanto stabilito.

Per questo motivo ho scritto a tutti i rappresentanti degli studenti delle facoltà dell’ateneo trentino, poiché la modifica non riguarda solamente il sottoscritto, ma potenzialmente altri studenti. Ho chiesto il benestare a pubblicare in un repository pubblico l’intero scambio di comunicazioni, ma tale benestare mi è stato negato.

Nonostante non mi sia mai stato possibile esporre di persona quanto articolato in maniera puntuale più volte via mail, e che a mio modo di vedere non abbia ricevuto risposte altrettanto puntuali, il confronto è sempre stato civile. Spero questo venga riconosciuto anche dall'amministrazione universitaria. I temi legati alla modifica del regolamento sono molteplici e impattano potenzialmente molti studenti. Io resto sempre disponibile al confronto; se i rappresentanti degli studenti lo ritengono utile sarei ben disposto a presentare tutte le ambiguità riscontrate e ravvisate riguardo la modifica del regolamento/informativa sui premi di merito, anche in un’aula universitaria, a tutti coloro interessati al tema. Non sono chiuso al confronto nemmeno con chi si è rifiutato di fornire chiarimenti puntuali rispetto a richieste specifiche, che risulterebbe più che benvenuto. 

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Considerazioni personali

Alcuni leggendo l’articolo mi hanno chiesto se ho simpatie per la Lega, che tramite un suo esponente ha espresso un commento diretto nell'articolo. A questi rispondo che nei mesi scorsi ho portato l’argomento all'attenzione di esponenti politici locali anche di carattere diametralmente opposto e, pur tutti valutando l’ambiguità della presa di posizione dell’Università, hanno perorato il chiarimento della tematica in maniera differente.

Ho frequentato le scuole superiori con Denis Paoli; è certamente un ragazzo impegnato, che crede nelle battaglie che porta avanti in ambito politico, molto vicino alla realtà locale e ai problemi della gente. Il mio non vuole essere un endorsement, non sono impegnato in politica e le mie idee su macro-temi rilevanti non trovano certamente spazio nella disquisizione di una questione che non vuole essere politica ma basata semplicemente sulla documentazione e di principio. Non cerco paragoni astratti, compassione, fama, notorietà e nemmeno denaro.

“Lei è il paladino solo del principio che piace a lei (e che incidentalmente le porta dei soldi). Mi perdoni, ma non riesco a vederla nel ruolo di tutore dei principi…”

I soldi, specie se “meritati”, solitamente non fanno schifo a nessuno. Affermare il contrario sarebbe ipocrita. Ad ogni modo, vista la provocazione e per sottolineare la mia totale imparzialità nell'analisi effettuata, nell'estate 2017 ho inviato una comunicazione al Rettore nella quale dichiaro che nel caso mi fosse corrisposto, devolverei l’eventuale premio di merito ad una ONLUS/ONG.


Rispetto all'articolo che avete letto, ho inviato la documentazione relativa alla vicenda a cinque diverse testate giornalistiche locali (stessa e-mail, stessi allegati); non ho quindi preso posizione nemmeno sulla testata sulla quale la notizia sarebbe potuta eventualmente essere riportata. Ho semplicemente riportato fatti documentati (come nel video sopra proposto), questi sono stati poi descritti nella parte alta dell’articolo dalla redazione del giornale che ha autonomamente sintetizzato oltre quattro pagine di racconto in poche righe.

Per correttezza, segnalo un errore nell'articolo; è corretto affermare che, nonostante le numerose richieste di organizzare un’incontro con il Rettore e/o un funzionario dell’Università degli studi di Trento per chiarire la tematica di persona, tale richiesta non sia mai stata accolta. Questo nonostante le richieste di chiarimenti effettuate sia dall'Assessorato all'Università che dal Difensore Civico della provincia di Trento che, al contrario (differentemente da quanto riportato), ho incontrato personalmente e che si sono interessati al tema contattando direttamente l’Università degli studi di Trento.

Ringrazio personalmente sia il Difensore Civico che la sua assistente, che pazientemente hanno raccolto tutta la documentazione sulla tematica e, ritenendo il tema degno di essere perorato, hanno richiesto in maniera formale un chiarimento al Rettore. Nonostante il Rettore non abbia poi fornito le risposte puntuali richieste, ritenendo sufficienti le informazioni fino allora fornite (chiudendo quindi ad ogni richiesta di chiarimento), dal punto di vista legale la vicenda non poteva più essere portata avanti. A detta dell’ufficio del Difensore Civico, ma anche dell’avvocato contattato in seguito all'invito da parte del Rettore a rivolgermi a un tribunale, mi è stato fatto presente che un ricorso può essere fatto solo entro 30 giorni dalla mancata assegnazione del premio di merito.

L’Assessorato all'Università dopo aver appreso la vicenda ed aver fatto alcune verifiche interne, come azione concreta, ha solamente suggerito di contattare il Difensore Civico. Nessun altra azione è stata presa nonostante la presentazione di evidenze che a mio modo di vedere indeboliscono la fiducia nel sistema di incentivi per far si che più soggetti si iscrivano ai corsi universitari. L’innalzamento della quota di laureati rappresenta uno degli obiettivi dichiarati dell’Assessorato all'Università.

L’ecosistema trentino (e.g. UNITN, PAT) si impegna per incentivare gli studenti a iscriversi all'università attraverso diverse iniziative che, tramite agevolazioni economiche specifiche, favoriscano una maggior iscrizione all'istruzione terziaria.


Queste iniziative mirano a fornire incentivi economici a diverse tipologie di studenti e premiarli in maniera meritocratica. Diverse iniziative, vanno in diverse direzioni; ad esempio aiutare le famiglie meno abbienti e stimolare tutti gli studenti - indipendentemente dalla condizione economica -  a perseguire un percorso di studio virtuoso.

Il Premio di merito rappresenta una di queste misure, ancora oggi in vigore per i soggetti iscritti all'Università degli studi di Trento fino all'anno accademico 2015-2016 e terminerà di essere erogato nel 2022. Il premio che potenzialmente dà la possibilità al soggetto che si laurea presso l’Università degli studi di Trento di incassare fino a 5000 euro, è stato “ideato per premiare le loro capacità e il loro impegno nello studio e incentivare: a laurearsi presto, a impegnarsi sin dal primo anno in termini di esami e voti, a fare esperienze di studio all'estero e magari conseguire una Doppia Laurea in un’Università straniera convenzionata con Trento e ad ottenere valutazioni elevate, anche in termini di lode”. Fino a poco tempo fa svariati documenti, tra cui la pagina ufficiale che presenta il premio agli studenti pubblicizzava “L’importo del premio è assegnato valutando l’impegno nel percorso universitario, indipendentemente dalla condizione economica del laureato”. Da notare che oggi quella frase è stata modificata nella pagina web dedicata al premo di merito in “Il premio è assegnato valutando i risultati complessivi conseguiti nella carriera universitaria”. È stato quindi tolto il riferimento al fatto che il premio di merito viene erogato indipendentemente dalle condizioni economiche del soggetto che potenzialmente lo riceve. 



Gli incentivi e le iniziative prese dall'ecosistema trentino possono funzionare solo se sono chiare e se le istituzioni si prendono carico di onorarle. Le contraddizioni nelle fattispecie presentate (e.g. normativa e documentazione) sono evidenti, e spero che diversi organi di controllo anche grazie a questa segnalazione si attivino.

Credo che tutte le parti interessate abbiano interesse a interrogarsi su questa importante tematica, per fare chiarezza attraverso i rappresentanti degli studenti, non solo per i laureati coinvolti, ma anche per gli studenti e studentesse più giovani che si chiedono se intraprendere gli studi universitari e in che modo PAT e Università degli studi di Trento si impegnano nel tener fede alle misure approntate per aiutare economicamente gli studenti bisognosi o meritevoli; stranieri, italiani o trentini che siano - purché definiti in maniera chiara nei regolamenti che devono essere comprensibili alla famiglia media. 

venerdì 23 maggio 2014

UberPop, sharing economy e una difficile via per il successo

Inizio col dire che nel caso di UberPop vanno fatte alcune considerazioni, positive, migliorative e talvolta anche critiche, il caso non è né bianco né nero; dovrebbe però dare lo spunto per un'analisi che va oltre il singolo servizio.
Il giudizio sulla legalità non è competenza del cittadino (nemmeno del Ministro dei trasporti) ma sarà un preposto della magistratura a decidere su questo aspetto. Quello che voglio fare in questo post è analizzare un servizio che parte dalla sharing economy "enabled by technology"! Questo è il punto di arrivo ineludibile, possiamo discutere ore sulla legalità o illegalità del servizio, questione che compete la legge ossia la regolamentazione della vita pacifica in un determinato territorio. Altra cosa è valutare la bontà di un progetto per i suoi risvolti sulla società per diversi fattori.


Vale la pena iniziare con la definizione di sharing economy, per comodità prendo quella in inglese da Wikipedia:

The sharing economy (sometimes also referred to as the peer-to-peer economy, mesh, collaborative economy, collaborative consumption) is a socio-economic system built around the sharing of human and physical assets. It includes the shared creation, production, distribution, trade and consumption of goods and services by different people and organizations. These systems take a variety of forms, often leveraging information technology to empower individuals, corporations, non-profits and government with information that enables distribution, sharing and reuse of excess capacity in goods and services.


Questo tipo di economia non è nuovo, anzi prima dell'innovazione della moneta (forse tra le più importanti nella storia) il commercio all'interno delle comunità veniva regolato dalla gift-economy e da economie basate sul debito. Il baratto avveniva principalmente solo tra mercanti e tra regni, ma non all'interno delle comunità. Fatto questo excursus arriviamo ai giorni d'oggi, alla tecnologia, all'economia di mercato e così via. Arriviamo a UberPop.



UberPop è un'applicazione che offre una piattaforma dove domanda e offerta di mobilità all'interno di centri urbani si incontrano. Chi offre un passaggio a determinate condizioni non è un professionista, non è un tassista e non è neppure un servizio NCC (servizio di noleggio con conducente). Il servizio viene erogato da un normale guidatore. Fermiamoci a questa analisi per il momento, lasciando da parte la parte economica. Supponiamo che il servizio sia gratuito. Una piattaforma dove coloro che necessitano di andare A a B possano chiedere un passaggio a chiunque accetti di darglielo. Questo è un tipico esempio di sharing-economy come descritto nella definizione precedente "...sharing and reuse of excess capacity in goods and services". Andando da X a Y il guidatore N fa salire M a cui serviva un passaggio da A a B che casualmente sono punti intermedi del tragitto che egli compie con la sua autovettura. Si condivide la capacità di carico non sfruttata dell'autovettura di N il quale può legalmente guidare un mezzo e decidere di farvi salire chiunque fino alla capacità consentita sulla carta di circolazione del mezzo.

Se il servizio fosse GRATUITO, così come descritto credo che tutti possiamo convenire che non vi siano problemi dal punto legale. Basti pensare che tale servizio esiste da decenni, è quello che viene concesso agli autostoppisti da casuali passati. Qual'è la differenza? Chiaramente la differenza sta nel fatto che oggi è possibile organizzare questo servizio molto più efficientemente rispetto anche solo a dieci anni fa. Cosa ha prodotto questo cambiamento? La tecnologia! Come ho evidenziando aprendo questo post, l'innovazione tecnologica è il vero motivo del cambiamento. Sempre tecnologia e l'innovazione dei processi produttivi hanno permesso a sempre più persone di avere device smart a basso costo. Grazie all'innovazione, agli avanzamenti nel campo mobile, del tracciamento GPS e via discorrendo la tecnologia ha man mano abilitato il nascere di piattaforme che una volta sviluppate hanno bisogno del minimo intervento umano per essere mantenute attive. L'interazione tra i due utenti è automatica e gestita da step successivi che forniscono dati a diversi algoritmi che fanno quello che fino a qualche anno fa veniva fatto da personale apposito, che veniva contattato per via telefonica!

L'autostoppista, dal canto suo, sale su una vettura senza sapere le condizioni psico-fisiche del conducente, senza sapere se questo ha fatto incidenti nella sua vita passata o se l'assicurazione della sua autovettura copra anche i passeggeri. E' quindi ovvio che se ne assume i rischi. Questo succede anche con UberPop, ma non mi sembra abbiano mai multato coloro che concedono passaggi agli autostoppisti, poiché chiaramente non compiono alcuna infrazione!

Arriviamo ora al fatto che crea discussione in questa vicenda. UberPop non funziona solo come intermediario tra domanda e offerta ma setta anche tariffe, gestisce i pagamenti via carta di credito e realizza una quota su ogni transazione. Introducendo il denaro, quello che il guidatore compie accordandosi con il passeggero è un contratto per una prestazione, mentre l'applicazione percepisce una quota per aver effettivamente facilitato tale transazione. E' chiaro che il prestatore di servizio, non essendo né un servizio di noleggio con conducente né un tassista non deve sottostare alle norme specifiche che interessano dette categorie. E' altrettanto chiaro che questa piattaforma costituisce una possibile forma di concorrenza rispetto all'uso di servizi come Taxi e NCC. Qualcuno dice che la piattaforma (Uber) otterrà sempre più vantaggio, se l'app continuerà a venire utilizzata, fino al punto di creare un "simil-monopolio" addirittura a discapito dei prezzi che non rientrano più a far parte di una contrattazione come quella che rispettano (più o meno) i tassisti. Ebbene, vi sono già molte piattaforme alternative a Uber che offrono servizi simili utilizzando business model diversi (ilSole24ORE ne parla in questo articolo). Essendo Uber/UberPop un servizio basato su una pluralità di prestatori di servizio (praticamente chiunque voglia farlo) e su una pluralità di richiedenti, l'unico monopolio potrebbe essere dato dalla piattaforma che però come abbiamo visto non è unica, ma ve ne sono molte altre! Sarà poi colui che vuole prestare questo servizio che deciderà se accasarsi con una piuttosto che con un'altra piuttosto che utilizzarne diverse!

La piattaforma digitale spesso elimina la necessità di servizi accessori a quello principale mettendo direttamente in comunicazione domanda e offerta. Per fare un esempio in un servizio, che non è pubblico, analizziamo velocemente iTunesStore, un gruppo o un cantante possono pubblicare un album senza un "produttore" senza produrre un CD fisico; la loro musica può essere acquistata da un cliente senza bisogno di un negozio di dischi o di un esperto che glielo consiglia. Notate bene che il canale di distribuzione in questo caso abilita una visibilità a livello globale (pluralità di soggetti che offrono - pluralità di soggetti che domandano). Il tutto avviene simultaneamente, scelta, pagamento, ottenimento del servizio. Il risultato oggi è che i negozi di musica sono quasi tutti chiusi, chi produce CD vergini e custodie per CD così come chi organizzava la distribuzione della musica su formati fisici hanno probabilmente chiuso la loro attività (qui un approfondimento). iTunesStore è il primo venditore di musica al mondo. Ma non è l'unico, non è un monopolio, oggi altre attività come Spotify stanno mettendo in discussione il business model di iTunesStore. Il bello dell'ICT è appunto la competizione! Yahoo ha aperto prima di Google ed aveva un'enorme fetta di mercato, oggi le parti sono invertite!  


Torniamo a UberPop ed in particolare ad un intervento del Ministo dei Trasporti e delle Infrastrutture, presente sul suo sito web:


Perchè Uberpop non rispetta le norme?
“Però – ha continuato il Ministro ai microfoni di Simone Spetia – noi dobbiamo intervenire per una semplice cosa: chi garantisce che, se una mamma o una figlia usano Uberpop come applicazione, colui che le va a prendere a fronte di un prezzo più basso, abbia l’assicurazione della sua macchina, sia abilitato a guidare quella macchina, non guidi in stato di ebbrezza? Chi dà la garanzia che quel servizio sia effettivamente un servizio pubblico efficiente e chi si assume la responsabilità di questo?”
“Quindi – ha spiegato ancora Maurizio Lupi – l’intervento duro è stato fatto su Uberpop e abbiamo detto con responsabilità, come è giusto che fosse in qualsiasi paese civile e quando si tratta di un servizio pubblico non di linea con corrispettivo di pagamento, devono esserci gli elementi previsti dalla legge perchè i soggetti esercitino.
Non è che un ragazzo solo perché ha tre ore di tempo può esercitare quella professione, perché, per esercitare quella professione deve dare delle garanzie come tutti gli altri lavoratori fanno”.


Nella risposta non si parla di norme in senso stretto, ma più che altro di rischi. Gli stessi che l'autostoppista, consapevolmente, o no, accetta quando decide di fare autostop. Se i problemi sono i rischi, vi sono delle soluzioni, ad esempio il Ministero dei trasporti potrebbe consentire, agli automobilisti che lo desiderano, la trasparenza dei loro profili presso la motorizzazione, in modo tale che coloro che usufruiscono del servizio possano sapere chi dà loro un passaggio a pagamento. Potrebbero far sapere: quando la vettura che utilizzeranno ha passato l'ultima revisione, la storia pregressa del guidatore, le eventuali multe e tutte le informazioni grazie alle quali si può giudicare l'affidabilità o meno della persona che offre il servizio e dell'automezzo che guida . Il tutto praticamente a costo ZERO!

Certo vi sono altre variabili, questa persona potrebbe aver guidato per 20 ore di fila, potrebbe essere drogato o ubriaco o mentalmente instabile. Tutti questi problemi possono essere però riscontrati ed essere ignoti al passeggero anche se il servizio viene fatto dalle altre due categorie. Il tassista potrebbe aver guidato per un numero di 15 ore la sua vettura privata in un contesto estraneo al suo lavoro e poi iniziare salire sul taxi, oppure, potrebbe assumere sostanze non compatibili con la guida e il passeggero non avrebbe alcun modo di saperlo! E' del tutto evidente che entrambi i guidatori devono rispettare il codice della strada! Se non si parte da questo concetto basilare, la mamma e la figlia descritte da Maurizio lupi non dovrebbero nemmeno camminare su un marciapiede, sia mai che un guidatore che utilizza UberPop (o anche no) esca di strada.


Senza cadere troppo negli estremi, stando alla descrizione del Ministro, anche l'autostop dovrebbe essere illegale, in quanto i rischi da egli esposti, sono gli stessi che una persona incontra nel fare l'autostop! Dovrebbe essere illegale BlaBlaCar così come altri servizi di sharing che il governo in primis dice di voler promuovere! La normativa promuove (D.M. 27/3/98) e predilige (articolo 22 legge 340 del 24 novembre 2000) la progettazione di sistemi di mobilità urbana al fine di ridurre l’uso individuale dell’automobile.


1. Al fine di soddisfare i fabbisogni di mobilità della popolazione, assicurare l'abbattimento dei livelli di inquinamento atmosferico ed acustico, la riduzione dei consumi energetici, l'aumento dei livelli di sicurezza del trasporto e della circolazione stradale, la minimizzazione dell'uso individuale dell'automobile privata e la moderazione del traffico, l'incremento della capacità di trasporto, l'aumento della percentuale di cittadini trasportati dai sistemi collettivi anche con soluzioni di car pooling e car sharing e la riduzione dei fenomeni di congestione nelle aree urbane, sono istituiti appositi piani urbani di mobilità (PUM) intesi come progetti del sistema della mobilità comprendenti l'insieme organico degli interventi sulle infrastrutture di trasporto pubblico e stradali, sui parcheggi di interscambio, sulle tecnologie, sul parco veicoli, sul governo della domanda di trasporto attraverso la struttura dei mobility manager, i sistemi di controllo e regolazione del traffico, l'informazione all'utenza, la logistica e le tecnologie destinate alla riorganizzazione della distribuzione delle merci nelle città. Le autorizzazioni legislative di spesa, da individuare con il regolamento di cui al comma 4, recanti limiti di impegno decorrenti dall'anno 2002, concernenti fondi finalizzati, da leggi settoriali in vigore, alla costruzione e sviluppo di singole modalità di trasporto e mobilità, a decorrere dall'anno finanziario medesimo sono iscritte in apposito fondo dello stato di previsione del Ministero dei trasporti e della navigazione.




Vorrei quindi capire in che modo il ministero definiva le attività di car pooling e car sharing nel 2000. Qui riporto le definizioni che potete tranquillamente cercare su Wikipedia.


Il termine inglese car pooling, corrispondente in italiano ad auto di gruppo o concarreggio, indica una modalità di trasporto che consiste nella condivisione di automobili private tra un gruppo di persone, con il fine principale di ridurre i costi del trasporto. È uno degli ambiti di intervento della cosiddetta mobilità sostenibile.

Il car sharing (dall'inglese auto condivisa o condivisione dell'automobile) è un servizio che permette di utilizzare un'automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola in un parcheggio, e pagando in ragione dell'utilizzo fatto.

La definizione di carpooling è, per come io la interpreto, una macro-categoria che può tranquillamente includere il servizio che viene erogato usufruendo di UberPop. Rimane il fatto che l'utilizzo dell'app si possa prestare ad organizzare un lavoro, più che per arrotondare mentre si fa un tragitto. Alla fine però, spero che tutti possiamo convenire che il car pooling, così come definito, ha gli stessi rischi descritti dal Ministro nella descrizione di UberPop. L'effetto "trust" che contraddistingue i servizi di car pooling (amici/famigliari/conoscenti) non è discriminatorio tra guidatori che lo fanno gratuitamente o per denaro, in quanto rimangono pur sempre persone che non effettuano quel servizio di professione come i tassisti e coloro che offrono un servizio di NCC. Quindi quando si accetta di salire e ottenere un passaggio, gratuito o pagato si accettano i rischi.

Se l'idea è quella di rendere illegittimo l'uso di UberPop per i motivi esposti dal Ministro, a questo punto dovremmo rendere illegittimo il passaggio agli autostoppisti, BlaBla.car, i servizi di carpooling e tutti i servizi digitali simili a UberPop che sono già sul mercato ma meno popolari!

Nel post precedente, che trattava Uber, comparavo l'attività del tassista vent'anni fa, oggi e tra vent'anni. Ebbene voglio chiudere con un intervista a un esperto, il direttore del Senseable City Lab - M.I.T. Boston - Carlo Ratti. Secondo ricerche derivanti da dati scientifici (non sparate elettorali che siamo abituati a sentire in questi ultimi giorni in campagna elettorale), nel medio futuro con l'ausilio di veicoli driverless e con lo sharing, l'esperto afferma che tutti potrebbero raggiungere il luogo desiderato, nei tempi desiderati utilizzando il 20% delle automobili! Quello che mi fa riflettere è l'ultima frase "..potremmo portare tutti a destinazione esattamente quando lo desiderano tirando via 4 macchine su 5 dalle strade!"

Vi invito a pensare a questa affermazione e poi calarla nel sistema economico così come lo conosciamo. Da lì capirete perché ho intitolato questo post "...sharing economy e una difficile via per il successo".

lunedì 19 maggio 2014

Uber, un esempio di qualcosa che non si può fermare, la tecnologia!

Uber, è un'applicazione che mette in comunicazione domanda e offerta per il trasporto di persone nei centri urbani mediante il servizio di noleggio con conducente (N.C.C.). In questi giorni si fa un gran parlare della disputa con le associazioni e i sindacati che rappresentano la categoria dei tassisti che vedono nell'applicazione la concorrenza sleale e addirittura l'illegalità!




Il problema delle disputa è una legge che differenzia il servizio offerto da taxi e servizi di noleggio con conducente. Riprendendo un articolo del fatto quotidiano:

La legge 21/1992 prevede che le auto ncc stazionino in un’autorimessa, che non girino sul suolo pubblico attendendo clientela e che il prezzo della corsa sia contrattato preventivamente. Oltretutto, per i noleggiatori non è previsto l’obbligo di corsa, come per i tassisti. Questo vuol dire che i ncc possono rifiutare alcune corse. “Noi chiediamo solo l’applicazione della normativa –  spiega Marco Marani del sindacato dei tassisti Unica Taxi Filt Cgil – qui a Milano fino a qualche mese fa si conviveva bene, perché ognuno faceva il proprio servizio, rispettando le regole. Con questa applicazione non viene rispettata la legge quadro”.


Questo è un tipico esempio di come la legge sia una barriera all'innovazione. La legge è del '92, non esisteva ancora l'SMS, che oggi sta pian piano scomparendo! L'applicazione è quanto di più comodo ci sia in termini di tracciabilità, interazione domanda-offerta, pagamenti e generazione di dati utili per capire il traffico e via discorrendo. Dall'altro lato, i tassisti hanno investito denaro in una licenza (in parecchi casi molto salata), che prevedeva determinate regole, e garantiva, con una certa probabilità, un certo ritorno economico. Un'esempio plastico di come non liberalizzando un mercato lo Stato abbia creato un pasticcio, ma soprattutto di come la tecnologia possa stravolgere un intero settore!

Questo è il punto fondamentale spesso sottaciuto o fatto passare in secondo piano nel dibattito nazionale. Prendiamo il lavoro del tassista/NCC (senza distinzioni: una persona impiegata nel guidare un mezzo per trasportare Tizio da A a B), oggi, vent'anni fa e pensiamo a come sarà la sua mansione tra vent'anni. Il lavoro di questo "prestatore di servizio" consiste nel trasportare un cliente ed eventualmente i suoi bagagli da A a B. Chiaramente, per sopravvivere nella concorrenza deve trovare clienti e/o associarsi con altri lavoratori nella stessa categoria in un'associazione che riceva le richieste per poi distribuirle ai vari associati e via discorrendo. Vent'anni fa questo tassista doveva conoscere la città o la zona dove abitava, studiarsi cartine, nomi di vie, insomma doveva imparare a fare un lavoro che richiedeva una certa pratica. Col tempo avrebbe poi appreso le strade più veloci in base alle diverse ore del giorno, si doveva tenere informato sui lavori in corso eccetera eccetera eccetera. Nei casi più avanzati aveva un cellulare e veniva chiamato dal centro base per una prenotazione, altrimenti veniva fermato per strada all'occorrenza. Quando il cliente saliva sulla vettura adibita al trasporto, il guidatore doveva capire l'indirizzo, attivare il tassametro, alla fine della corsa riscuotere, fare una ricevuta cartacea, tenere i conti per la dichiarazione dei redditi, versare un'eventuale percentuale all'associazione e chi più ne ha più ne metta. Oggi lo stesso lavoratore potrebbe non associarsi con nessuno, lavorare da solo e aspettare la richiesta diretta di un cliente per via telematica, questa una volta vagliata/accettata gli fornirà direttamente le coordinate del prelievo e della destinazione. Non serve che il guidatore sia super-esperto del luogo (anche se di certo aiuta); un GPS gli traccerà il percorso migliore, con applicazioni come Waze addirittura il tracciato migliore in real time tenendo conto del flusso sulle varie alternative, di eventuali lavori sui possibili tragitti e così via. Non dovrà riscuotere, il tutto viene fatto dall'applicazione, così come un altro software potrebbe gestire la dichiarazione degli introiti. Proviamo solo a immaginare come questo servizio sarà tra vent'anni; il guidatore forse non sarà più necessario o magari ci sarà ma non dovrà nemmeno guidare. Non è un segreto che Google abbia già testato una macchina senza conducente per migliaia di miglia con risultati straordinari.



La morale di questo racconto è che sparisce sempre più tutto ciò che è accessorio, fino ad arrivare a rimuovere l'apporto umano a un determinato servizio. Di per sè Uber facilita l'interazione domanda offerta eliminando tutto il superfluo; coloro che si occupano di prendere e trasmettere la prenotazione, la gestione del contante/pagamento, la perdita di tempo per contrattazione e possibili misunderstanding su prelievo e destinazione. Tutto questo generando dati su corse, traffico, prenotazioni, fatturazioni e molto altro in maniera automatica in modo da poter gestire tale servizio in maniera sempre più efficiente grazie all'analisi dei dati. Forse non ve ne siete accorti ma tuttociò succede più o meno in tutti i settori!

Al termine degli anni '80 sono stati introdotti quelli che noi chiamiamo in maniera impropria "Bancomat". La sigla inglese ATM ha molto più senso e significa Automated Teller Machine. Ossia una macchina automatica che sostituisce lo sportellista. Vi ricordate la pubblicità di Autostrade S.p.A. "abbiamo inventato il Telepass che vi fa risparmiare tempo", cancellando o riducendo all'osso i casellanti, così come i Tutor e l'Autovelox riducono il numero di poliziotti necessari a far rispettare il codice della strada. In aeroporto il check-in è automatico, così come il baggage-drop per molti voli low cost, il biglietto ormai non lo stampi più, mostri un QRCode sullo smartphone. La musica non si acquista più né nel negozio specializzato né sulle bancarelle alla sagra del paese ma principalmente su piattaforme online come iTunes Store, con relativo crollo dei posti di lavoro nell'indotto (qui ne parlo in dettaglio). Iniziano a diffondersi anche le casse automatiche ai supermercati dove la gente si passa i prodotti acquistati e paga con carta di credito, senza la necessità di operatore, come si usa da anni ai distributori di benzina automatici. In Danimarca perfino i pacchi e le lettere seguono lo stesso principio, ci sono delle postazioni con computer e bilancia dove i cittadini pesano buste e pacchi, applicano i bolli che vengono stampati in base ai dati immessi e portano infine il pacco nello scomparto indicato per la spedizione. Ancora ricordo quando sono salito la prima volta sulla metro; seduto in prima fila avevo davanti solo il vetro, la metro a Copenaghen è senza conducente. I casi di cui si potrebbe parlare sono molti, ma non vado oltre.

Cosa manca in questo elenco? Bè mancano i servizi erogati dalla PA! Nella mia provincia stanno iniziando ad automatizzare le prenotazioni dei servizi sanitari centro unico prenotazioni (CUP). Da internet si possono semplicemente prenotare visite di vario genere. Stanno anche lavorando per mettere online il catasto ed hanno imposto l'iscrizione degli alunni di scuole elementari, medie e superiori via internet. La strada da fare è però lunga e la macchina dell'amministrazione pubblica va lenta con qualcuno che gli buca le gomme. Già, perché così come succede in questi giorni con i tassisti, quando una tecnologia mette in pericolo lo status quo o la posizione che garantisce uno stipendio con cui vivere, non fa piacere a nessuno accettare che il proprio lavoro sia messo in discussione da qualche riga di codice. Consiglio un paio di libri scritti dalla stessa coppia di docenti dell'MIT: "Race Against The Machine" (2011) e "The second Machine Age" (2014) By Erik Brynjolfsson and Andrew McAfee.



La verità è che prima o poi tale cambiamento avverrà (sono le regole del "gioco"), più si ritarda e più se ne pagheranno i costi! Non si può (e non si deve) fermare o rallentare l'innovazione, bisogna rendersi conto che il modello economico-sociale così come lo abbiamo conosciuto per anni sta cambiando radicalmente. Dobbiamo mettere questo aspetto al centro del dibattito politico, senza se e senza ma. La rivoluzione digitale sta attaccando in maniera preponderante il terziario, quel settore dove nei paesi industrializzati è impiegato il 70% della forza lavoro occupata! Regolamentare il mercato per fermare la crescita di soluzioni innovative non è la soluzione! Bisogna ragionare sugli impatti della tecnologia sul lavoro e valutare se questo stia man a mano perdendo il suo valore originale all'interno del sistema socio-economico. In tal caso, la riforma del lavoro necessaria sarebbe molto più ampia di quella al vaglio del nostro parlamento in questi giorni...

Ho posto la domanda relativa a questo fenomeno che più di ottant'anni fa Keynes chiamava "Technological Unemployment" a Romano Prodi qualche mese fa, ecco la sua risposta:





martedì 29 aprile 2014

La riorganizzazione, l'efficientamento, la sinergizzazione... in parole povere la disoccupazione tecnologica.

Alcune delle parole che ho usato nel titolo ricorrono quotidianamente altre no. In questi giorni si dibatte molto il piano presentato da Cottarelli sulla spending review. Altrettanto dibattute alcune misure di tipo più politico che l'attuale governo sta man mano approvando come la diminuzione delle auto blu, il taglio del senato della repubblica, delle province, del CNEL e di altri enti che a detta dell'attuale Presidente del Consiglio non apportano alcuna utilità al Paese e rappresentano quindi un costo. Il piano di Cottarelli prevederebbe esuberi per 85.000 persone nel pubblico impiego, Matteo Renzi con il suo taglio alla politica promette di ridurre di 3000 il numero dei politici. Questo, sempre se realizzato, potrebbe essere considerato un efficientamento. D'altro canto queste persone non avranno più un posto di lavoro, anzi ad essere precisi non ci sarà più quel posto di lavoro. La verità è che seppur importante come riduzione di personale non è nemmeno paragonabile al risultato di una vera riforma della PA, quella che si potrebbe chiamare sinergizzazione della funzione pubblica.

Pensate per un attimo che le funzioni dello Stato debbano essere tutte re-implementate, così come i processi che deve adempiere il singolo cittadino o la singola impresa verso la PA e viceversa. In questo ipotetico sistema paghereste del personale per distribuire e analizzare questionari cartacei per monitorare il livello occupazionale o costruireste un sistema informatico digitale che vi possa dare dati certi in tempo reale? Dareste ai cittadini ancora carte d'identità di carta pregiata oppure utilizzereste un sistema avanzato di riconoscimento con la possibilità di fare un match tra il cittadino e i servizi che utilizza grazie all'autenticazione che l'identità gli consente? Mettereste in piedi un sistema informatico che permette ad aziende e cittadini di avere la loro situazione fiscale sempre sotto controllo, con un canale telematico diretto verso la PA per eventuali controversie o gli lascereste in balia di uffici multipli talvolta perfino con competenze sovrapposte?





La verità è che i numeri proposti sono solo un assaggio di quello che potrebbe essere fatto se venisse eliminato il digital divide. Il risparmio sarebbe notevole, ma non sarebbe solo un risparmio di risorse materiali o di punti di PIL investiti in spesa pubblica, bensì sarebbe un risparmio di risorse umane. In parole povere il tutto causerebbe disoccupazione, quella che più di ottant'anni fa J.M.Keynes definiva "disoccupazione tecnologica". Un paio di docenti del MIT hanno scritto un bel libro a proposito, lo consiglio spassionatamente -> Race Against the Machine


Sono molti gli scettici, eppure il cambiamento è sotto i loro occhi ogni giorno. Ogni volta che passiamo il casello di un'autostrada usando il telepass, quando prendiamo un volo low cost, ogni volta che utilizziamo wikipedia piuttosto che la fotocamera dello smartphone stiamo godendo di progressi tecnologici che hanno cambiato il modo di vivere e allo stesso tempo cancellato posti di lavoro. L'esempio più lampante è forse quello del mondo della musica. Tornando indietro negli anni ci accorgiamo che sono avvenute svariate innovazioni radicali. Sto parlando dell'avvento della musicassetta che è andata progressivamente a sostituire il vinile, così come poi è successo con il CD-ROM fino ai giorni nostri, o meglio una decina di anni fa con l'MP3. Fino all'ultima innovazione c'era bisogno di un sistema logistico che seguisse l'intera catena dalla produzione alla distribuzione. Bisognava produrre un supporto fisico, passare per uno studio di registrazione, le tracce andavano poi incise sui diversi formati, questi andavano poi distribuiti nei vari punti vendita, esposti e venduti. Questa catena contava un'innumerevole serie di lavoratori che l'attuale modello di produzione e distribuzione di materiale audio non prevede più. Inoltre il fatto che un album venda 100 o 10 milioni di copie non comporta il benché minimo aumento di lavoro in termini di personale (ecco un post che parla dell'innovazione nel campo della musica). Voi direte che questo vale solamente per il campo della musica o al più dell'intrattenimento (giochi, libri, film) ma come ho spiegato il tutto va a incidere sull'indotto. Ad ogni modo vi sbagliate se credete che gli altri settori non siano interessati dai cambiamenti che la tecnologia sta apportando sempre più nel nostro mondo.

La tecnologia non comporta solamente i settori high tech, è invece trasversale e va ad impattare su tutti i settori. Cambia la vita all'albergatore che riceve le prenotazioni online così come i pagamenti, cambia la vita di chi guida i treni nelle metropolitane (a Copenaghen la metro è senza conducente) cambia la vita a chi lavora nei magazzini che sono sempre più automatizzati. Potrei dirvi che a breve cambierà la vita anche ai muratori, dei macchinari in stile stampante 3D sono già in fase di studio per la costruzione di stabili. Il vostro smartphone è già in grado, anche se non perfettamente, di capire la vostra voce. La tecnologia continua ad avanzare con ritmo esponenziale e sempre più lavori sono a rischio. Non riconoscere questo cambiamento che porterà man mano all'aumento della disoccupazione o alla presenza di lavori rimpiazzabili dalla tecnologia è semplicemente anacronistico.



Chi promette di creare i presupposti e le condizioni per creare posti di "lavoro" e allo stesso tempo di risparmiare, efficientare, sinergizzare o riorganizzare i processi così come li conosciamo in questo Paese, si contraddice. Se tagliamo le auto blu, dovremmo tagliare anche coloro i quali quelle auto le guidano, se semplifichiamo la PA, gli addetti alle procedure che andranno a sparire si troveranno anch'essi senza lavoro. Di per sé la difficoltà non sta nel creare lavoro, lo è altresì creare posti di lavoro produttivi.

Voglio citare un aneddoto raccontato da un amico dal premio nobel all’economia (1976) Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006).

Una volta, a cena, Milton ricordò che negli anni Sessanta si trovava in un Paese asiatico e di aver visitato un cantiere per la realizzazione di un canale. Friedman rimase colpito dal fatto che, anziché servirsi di macchinari e ruspe, gli operai usavano pala e piccone e chiese al suo accompagnatore per quale motivo non venivano usate più macchine. Il funzionario statale rispose: «Lei non capisce: questo è un programma per la creazione di posti di lavoro». Al che Milton rispose: «Ah, credevo che voleste scavare un canale. Se quello che volete sono più posti di lavoro, allora dovreste dare a questi operai dei cucchiai, non delle pale».


Questo aneddoto spiega quanto “facile” sia “creare” lavori improduttivi, mentre incoraggiare lo sviluppo di lavori che devono misurarsi con le regole di mercato e la concorrenza, spesso internazionale, è ben altra cosa.

L'argomento sarebbe lunghissimo da dibattere, chiudo quindi con un pezzo tratto dal Corriere della Sera che riassume in maniera molto efficace la situazione... correva l'anno 1998!


Qual e' la causa di una disoccupazione il cui livello fisiologico dovrebbe essere del 5 - 6 per cento e che invece veleggia da tempo, in troppi Paesi dell'Ue, a livelli del 10 - 12 per cento? Le cause sono ovviamente parecchie. Ma quella più sottaciuta dagli economisti e' che la disoccupazione della fine del XX secolo ha, come sua fonte primaria, il progresso tecnologico, e quindi un fattore strutturale. Agli economisti non piace ammetterlo, perché la loro farmacopea sa curare le crisi congiunturali assai meglio delle crisi strutturali. Ma tant'è. La tecnologia produce disoccupazione per la semplicissima ragione che la macchina sostituisce il lavoratore. Per circa due secoli non e' stato così perché il lavoratore sostituito dalla macchina è stato rioccupato nella produzione delle macchine. Ma questo riassorbimento virtuoso è stato inceppato dalla macchina che fabbrica la macchina, dai robot. Il problema è stato eluso per alcuni decenni inflazionando il terziario e la cosiddetta società dei servizi. La società dei servizi e' stata osannata senza che gli economisti ne avvertissero l'insidia, e cioè che stavano nascendo società parassitarie, società iperburocratizzate caratterizzate da occupazioni improduttive (e di cui gli economisti non sanno misurare la produttività). Non poteva durare, e difatti il bubbone è scoppiato. E a questo punto è troppo tardi per rimediare alla svelta. Se mai ci fosse stato, oggi il pronto rimedio non c'è più. Non è vero, pertanto, che il problema si risolve con gli investimenti, investendo di più. Se l'investimento è in tecnologia, se è ancora in macchine (o, come si dice in inglese, capital intensive), allora non riduce la disoccupazione. La disoccupazione è ridotta solo da investimenti labour intensive, e cioè indirizzati su attività che richiedono mano d'opera, lavoro a mano. E se le cose stanno così, così va detto. Ma va anche detto chiaro e forte che non dobbiamo inventare mano, o mani, d'opera che sono soltanto mani improduttive e quindi costi improduttivi, costi che aggravano i nostri già gravissimi problemi.”

martedì 22 aprile 2014

Una dashboard per il cittadino!

Spinto da alcune affermazioni del Presidente del Consiglio Matteo Renzi sugli OpenData, la promessa di rendere pubblici, in formati accessibili e analizzabili, i dati degli enti locali, ho scritto un post sull'importanza della qualità dei dati prima ancora che questi siano condivisi. Nella mia riflessione evidenzio come ci sia bisogno di persone curiose e capaci che mettano in piedi delle applicazioni utili per il cittadino qualunque, in modo da dare un valore a questi dati. Ebbene una delle prime iniziative che dovrebbe fare il governo, nel segno della trasparenza, potrebbe essere una dashboard del cittadino.


Per dashboard si intende volgarmente un cruscotto dove si possono tenere sott'occhio diversi valori. E' uno strumento che tutti noi consapevolmente o inconsapevolmente utilizziamo spesso, quando guidiamo un'automobile ad esempio o quando consultiamo i widget nella nostra dashboard su un qualsiasi device elettronico per controllare la situazione meteo, la nostra finanza, quello che fanno al cinema o i feed RSS che più ci interessano. Ebbene il governo per essere veramente trasparente dovrebbe impegnarsi non solo a fornire dati statici ma anche dati aggiornati in tempo "reale", quindi uno stream di dati.

Da parecchi anni molti giornali online integrano a margine una mini-dashboard che mostra alcuni indici finanziari. Tra questi troviamo le quotazioni degli indici di riferimento delle varie nazioni avanzate e dal 2011 (almeno da quello che io ricordo) possiamo anche controllare lo Spread BTP-BUND. Questo dato viene aggiornato più volte al giorno. Perché il governo non dà il via ad un'iniziativa volta a realizzare una dashboard completa con i dati a sua disposizione? Online potete trovare un'iniziativa simile, si chiama "Italia-ora" dove vengono mostrati per l'appunto dati di interesse comune, come la popolazione censita, con il numero di persone nate o decedute nel giorno corrente, le variazioni da inizio anno, la presenza di persone di origine non italiana regolarmente registrate sul nostro territorio e così via. Vi sono dati sull'economia, l'ammontare attuale del debito pubblico, il numero di precari, il numero di disoccupati e molto altro riguardo diversi campi, dalla salute alla comunicazione. Certo, molte di queste informazioni sono effettivamente delle STIME, non dei dati (ricordiamo che nemmeno la PA conosce il vero dato sulla disoccupazione, che è invece il risultato di un'inferenza). Questo sito web prende i dati (quelli disponibili) dalla PA e tramite formule matematiche e statistiche simula o meglio inferenza quanto a disposizione per fornire informazioni "real time" al cittadino.



La PA, al contrario, può disporre di questi dati in tempo reale! L'ammontare del debito pubblico, non è una cifra aleatoria in un dato momento, ma un importo certo che varia nel tempo in base alle aste pubbliche di emissione di titoli di Stato. Ebbene sapete dirmi a quanto ammonta precisamente il debito in questo momento? O quanti interessi sul debito abbiamo pagato quest'anno? La risposta è probabilmente "NO!", ma i dati per rendere pubbliche e facilmente consultabili e analizzabili queste informazioni esistono. Lo stesso discorso vale per molte altre fattispecie! Quante persone ricevono un sussidio di disoccupazione o usufruiscono di CIGO, CIGS o cassa integrazione in deroga in una determinata provincia o comune? Quante ore sono state erogate? Quante persone sono nate in un determinato comune, quante sono decedute, quanti immobili sono stati alienati, quante e quali aziende sono presenti e registrate... quante attività imprenditoriali sono state aperte in un determinato lasso di tempo, quante chiuse?


La lista dei topic che mi viene in mente senza pensarci troppo è molto lunga, le informazioni che potrebbero essere messe a disposizione dalla PA in tempo reale sono molteplici, il tutto senza andare a intaccare il diritto alla privacy e senza dover spendere cifre esorbitanti. Già, quando un bimbo nasce poco dopo viene registrato all'anagrafe e/o in comune, quando una persona muore, viene redatto un atto, lo stesso quando si dà vita ad un'azienda o quando si autorizzano ore di cassa integrazione o periodi pagati di disoccupazione a chicchessia. Questi processi potrebbero quindi passare per un procedimento informatizzato che potrebbe automaticamente generare i dati per aggiornare la dashboard del cittadino, permettendogli di consultare i dati disponibili in tempo "reale". Al momento il miglior esempio in questa direzione è l'OpenData che in qualche città sta prendendo piede, ma che rimane spesso limitato nella qualità dei dati.




Alcuni grandi centri urbani si stanno muovendo in questa direzione, utilizzando per la maggiore valori "statici", pubblicazioni periodiche, non flussi di dati, cioè quello che servirebbe per avere sia la situazione attuale che uno storico. Il risultato è che l'OpenData fatto in questa maniera, con pubblicazioni statiche di dati, rimane un passettino nella giusta direzione; quello che invece potrebbe essere un "giant leap" parafrasando Neil Armstrong sarebbe rendere pubblici stream di dati. Se veramente questo governo punta a fare dell'OpenData una bandiera del suo operato un'iniziativa in tal senso (realizzare una dashboard per il cittadino aggiornata in real time e rendendo pubblici i flussi di dati) sarebbe sicuramente ben vista da chi con gli OpenData ci lavora e, soprattutto, un grande passo in avanti sulla via della trasparenza nei confronti di tutti i cittadini.

Questo è solo un'appello ... 

lunedì 21 aprile 2014

L' OpenData è una battaglia importante, dove la qualità è molto più importante della quantità!



Nella conferenza che ha seguito il consiglio dei ministri pre pasquale, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha illustrato molte misure di vario genere una delle quali riguarda proprio l'OpenData.


Per il momento non posso far altro che plaudere a questa misura. Tra sessanta giorni controllerò se questa promessa verrà mantenuta, senza però dare solamente un giudizio binario "Sì/No" ma dando una grandissima importanza al "come"... 

"Information is the oil of the 21st century, and analytics is the combustion engine,” - Peter Sondergaard

"I dati sono il petrolio del futuro e la loro analisi è il nostro motore a scoppio".

Voglio iniziare questo post così, con una citazione, una citazione semplice, una metafora che contiene molte verità. Piero Angela in uno degli ultimi libri che ho letto parlava così del petrolio..

“Il petrolio non è mai servito a niente, se non ad alimentare lucerne e a calafatare le imbarcazioni. Non è mai stato una fonte energetica. Marco Polo ne aveva parlato nel Milione come di una curiosità, dopo averlo visto durante il suo viaggio verso la Cina.
Il petrolio infatti è una “tecnologia”, non una ricchezza. È un liquido maleodorante che è oggi prezioso solo perché è diventato uno dei componenti del motore, insieme ai pistoni, al cilindro, alla batteria, alle candele ecc. Improvvisamente l’invenzione di questo nuovo modo di usarlo ha sconvolto l’economia e la politica: siccome in questo modo il petrolio si è trasformato in fonte energetica (di per sé non lo era), non solo ha fatto girare ruote di ogni tipo (dalle auto alle turbine) ma ha trasformato in potenze economiche i paesi che casualmente lo possedevano nel loro sottosuolo, scatenando colossali affari, accordi economici e strategici, investimenti stratosferici (con tangenti altrettanto stratosferiche), interventi militari, persino guerre. Tutto questo per un liquido puzzolente che non è mai servito a niente e che la tecnologia ha reso invece preziosissimo. Il prezzo del petrolio in Borsa è il risultato del software che c’è dietro, altrimenti non varrebbe niente.”
[From: Piero Angela - “A cosa serve la politica?”] 

In queste poche righe si evince la similitudine fortissima con i dati. I dati non sono un'invenzione moderna, ci sono da molti anni anche in formato elettronico! Gli OpenData rappresentano invece una battaglia moderna proprio per far arrivare i dati a tutti coloro che ne possono trarre benefici. Come il petrolio i dati devono essere "raffinati"; organizzati quindi secondo best practices scientifiche che ne garantiscano una più veloce analisi da una platea sempre più ampia.

Già, la platea, i più nei loro spot sugli OpenData se ne dimenticano...

Inizialmente, solo pochi erano convinti e credevano nei possibili impieghi e gli innumerevoli scenari che il petrolio poteva cambiare. Molti li credevano dei sognatori o addirittura dei pazzi. Erano quelli che ora chiameremo gli early adapters. Col passare del tempo alcuni risultati iniziarono ad arrivare e gli esperti interessati a questa nuova tecnologia accrebbero e così si arrivò a quella che potrebbe essere definita una milestone della storia umana: il motore a scoppio. Oggi ci sono un discreto numero di persone che sanno guidare... sono molte meno quelle che sanno costruire un motore.

Per quanto riguarda i dati siamo oggi nella stessa situazione. In generale, non sono molte le persone che sanno manipolare grandi quantità di dati in diversi formati, strutturarli in maniera scientifica, effettuare query complesse e presentare visualizzazioni utili all'utente finale. Ricordo che in questo Paese, solo il 55% della popolazione ha accesso a internet (Dati ISTAT), perché non ha la minima cultura digitale (il 26,5% considera Internet inutile e non interessante - Dati ISTAT) e infine perché non è stata istruita a capirne e apprezzarne i vantaggi.

Quei pochi che hanno le competenze necessarie e idee per creare un "motore a scoppio", talvolta sono scoraggiati dalle caratteristiche del petrolio che hanno a disposizione. Per varie fattispecie, spesso si trovano a lavorare con dei dati che sono come petrolio a cui è stata aggiunta acqua invece che applicargli i giusti processi per fargli guadagnare ottani.


La materia prima, i dati grezzi, devono essere di qualità, non devono essere aggregati, non devono riferirsi a decadi fa, a meno che non facciano parte di uno storico (raro come i diamanti), non devono essere ridondanti e non devono essere inconsistenti. Devono essere in formato aperto, ridistribuibile e facilmente analizzabile da un calcolatore. Un file pdf per capirci è quanto di più scomodo si possa trovare in mano uno sviluppatore, seppur forse la via più veloce per la PA per condividere informazioni. Ebbene questa modalità, pur rientrando in una definizione larga di OpenData, va contro lo spirito vero che promuove l'analisi, il riuso del dato aggregandolo con altri per produrre così informazioni.

Ancora una volta la situazione è simile a quella del petrolio. Servono ingegneri, informatici, interface designers e molti altri professionisti per costruire uno o meglio molti "motori a scoppio", ossia applicazioni di indubbia utilità per gli utenti. Non è ancora finita, come con le automobili, bisogna che gli utenti imparino a guidarle. Tutto questo non avviene dall'oggi al domani, ecco perché anche la cultura digitale deve essere spinta con provvedimenti dall'alto che mirino alla formazione del cittadino (l'agenda digitale dovrebbe andare anche in questo senso). Serve anche cultura del dato; i dati grezzi e le informazioni derivanti devono essere ben documentate e presentate per quello che sono, non manipolate per creare disinformazione e quindi vanificare il lavoro fatto a monte per portarle alla luce (un'esempio che propongo è la disinformazione fatta con LE STIME - non i dati - sul tasso di disoccupazione).

Infine, bisogna ricordare che, come il petrolio, i dati sono nelle mani di pochi: dei governi, dei colossi dell'informatica, delle banche e delle multinazionali. Ma a differenza del petrolio, i dati sono anche nelle mani di tutti noi! Non esito a definire sorprendenti alcuni servizi che derivano da dati generati principalmente da utenti che senza alcun compenso hanno inserito il significato, parola dopo parola di milioni di termini su Wikipedia oppure marcato strade, piazze, palazzi e molto più di quanto possiate immaginare su OpenStreetMap. Tuttociò fa pensare a quanto sarebbe possibile realizzare se la collettività avesse accesso alle grandi quantità di dati, già raccolti e che non vengono condivisi. Molti possono non esserne consapevoli, ma negli ultimi anni vi è stata una data explosion che ha portato a produrre in un lasso di tempo molto breve l'ammontare di dati prodotto nella storia umana precedente! Oggigiorno si raccolgono dati su ogni fattispecie immaginabile, dall'economia alla mobilità di persone e merci sulle strade, nei centri commerciali, nel web... dati sui fenomeni meteorologici, naturali e climatici... dati sulla salute, sulle sperimentazioni e sulle cure mediche e molti altri aspetti che potrebbero essere per noi perfino inimmaginabili! Le possibilità offerte potrebbero essere quasi senza fine...



Le barriere rimangono però moltissime, ed è su queste che bisogna lavorare, in primis sulla cultura digitale e del dato, che prima ancora di essere condiviso deve essere di qualità.