venerdì 23 maggio 2014

UberPop, sharing economy e una difficile via per il successo

Inizio col dire che nel caso di UberPop vanno fatte alcune considerazioni, positive, migliorative e talvolta anche critiche, il caso non è né bianco né nero; dovrebbe però dare lo spunto per un'analisi che va oltre il singolo servizio.
Il giudizio sulla legalità non è competenza del cittadino (nemmeno del Ministro dei trasporti) ma sarà un preposto della magistratura a decidere su questo aspetto. Quello che voglio fare in questo post è analizzare un servizio che parte dalla sharing economy "enabled by technology"! Questo è il punto di arrivo ineludibile, possiamo discutere ore sulla legalità o illegalità del servizio, questione che compete la legge ossia la regolamentazione della vita pacifica in un determinato territorio. Altra cosa è valutare la bontà di un progetto per i suoi risvolti sulla società per diversi fattori.


Vale la pena iniziare con la definizione di sharing economy, per comodità prendo quella in inglese da Wikipedia:

The sharing economy (sometimes also referred to as the peer-to-peer economy, mesh, collaborative economy, collaborative consumption) is a socio-economic system built around the sharing of human and physical assets. It includes the shared creation, production, distribution, trade and consumption of goods and services by different people and organizations. These systems take a variety of forms, often leveraging information technology to empower individuals, corporations, non-profits and government with information that enables distribution, sharing and reuse of excess capacity in goods and services.


Questo tipo di economia non è nuovo, anzi prima dell'innovazione della moneta (forse tra le più importanti nella storia) il commercio all'interno delle comunità veniva regolato dalla gift-economy e da economie basate sul debito. Il baratto avveniva principalmente solo tra mercanti e tra regni, ma non all'interno delle comunità. Fatto questo excursus arriviamo ai giorni d'oggi, alla tecnologia, all'economia di mercato e così via. Arriviamo a UberPop.



UberPop è un'applicazione che offre una piattaforma dove domanda e offerta di mobilità all'interno di centri urbani si incontrano. Chi offre un passaggio a determinate condizioni non è un professionista, non è un tassista e non è neppure un servizio NCC (servizio di noleggio con conducente). Il servizio viene erogato da un normale guidatore. Fermiamoci a questa analisi per il momento, lasciando da parte la parte economica. Supponiamo che il servizio sia gratuito. Una piattaforma dove coloro che necessitano di andare A a B possano chiedere un passaggio a chiunque accetti di darglielo. Questo è un tipico esempio di sharing-economy come descritto nella definizione precedente "...sharing and reuse of excess capacity in goods and services". Andando da X a Y il guidatore N fa salire M a cui serviva un passaggio da A a B che casualmente sono punti intermedi del tragitto che egli compie con la sua autovettura. Si condivide la capacità di carico non sfruttata dell'autovettura di N il quale può legalmente guidare un mezzo e decidere di farvi salire chiunque fino alla capacità consentita sulla carta di circolazione del mezzo.

Se il servizio fosse GRATUITO, così come descritto credo che tutti possiamo convenire che non vi siano problemi dal punto legale. Basti pensare che tale servizio esiste da decenni, è quello che viene concesso agli autostoppisti da casuali passati. Qual'è la differenza? Chiaramente la differenza sta nel fatto che oggi è possibile organizzare questo servizio molto più efficientemente rispetto anche solo a dieci anni fa. Cosa ha prodotto questo cambiamento? La tecnologia! Come ho evidenziando aprendo questo post, l'innovazione tecnologica è il vero motivo del cambiamento. Sempre tecnologia e l'innovazione dei processi produttivi hanno permesso a sempre più persone di avere device smart a basso costo. Grazie all'innovazione, agli avanzamenti nel campo mobile, del tracciamento GPS e via discorrendo la tecnologia ha man mano abilitato il nascere di piattaforme che una volta sviluppate hanno bisogno del minimo intervento umano per essere mantenute attive. L'interazione tra i due utenti è automatica e gestita da step successivi che forniscono dati a diversi algoritmi che fanno quello che fino a qualche anno fa veniva fatto da personale apposito, che veniva contattato per via telefonica!

L'autostoppista, dal canto suo, sale su una vettura senza sapere le condizioni psico-fisiche del conducente, senza sapere se questo ha fatto incidenti nella sua vita passata o se l'assicurazione della sua autovettura copra anche i passeggeri. E' quindi ovvio che se ne assume i rischi. Questo succede anche con UberPop, ma non mi sembra abbiano mai multato coloro che concedono passaggi agli autostoppisti, poiché chiaramente non compiono alcuna infrazione!

Arriviamo ora al fatto che crea discussione in questa vicenda. UberPop non funziona solo come intermediario tra domanda e offerta ma setta anche tariffe, gestisce i pagamenti via carta di credito e realizza una quota su ogni transazione. Introducendo il denaro, quello che il guidatore compie accordandosi con il passeggero è un contratto per una prestazione, mentre l'applicazione percepisce una quota per aver effettivamente facilitato tale transazione. E' chiaro che il prestatore di servizio, non essendo né un servizio di noleggio con conducente né un tassista non deve sottostare alle norme specifiche che interessano dette categorie. E' altrettanto chiaro che questa piattaforma costituisce una possibile forma di concorrenza rispetto all'uso di servizi come Taxi e NCC. Qualcuno dice che la piattaforma (Uber) otterrà sempre più vantaggio, se l'app continuerà a venire utilizzata, fino al punto di creare un "simil-monopolio" addirittura a discapito dei prezzi che non rientrano più a far parte di una contrattazione come quella che rispettano (più o meno) i tassisti. Ebbene, vi sono già molte piattaforme alternative a Uber che offrono servizi simili utilizzando business model diversi (ilSole24ORE ne parla in questo articolo). Essendo Uber/UberPop un servizio basato su una pluralità di prestatori di servizio (praticamente chiunque voglia farlo) e su una pluralità di richiedenti, l'unico monopolio potrebbe essere dato dalla piattaforma che però come abbiamo visto non è unica, ma ve ne sono molte altre! Sarà poi colui che vuole prestare questo servizio che deciderà se accasarsi con una piuttosto che con un'altra piuttosto che utilizzarne diverse!

La piattaforma digitale spesso elimina la necessità di servizi accessori a quello principale mettendo direttamente in comunicazione domanda e offerta. Per fare un esempio in un servizio, che non è pubblico, analizziamo velocemente iTunesStore, un gruppo o un cantante possono pubblicare un album senza un "produttore" senza produrre un CD fisico; la loro musica può essere acquistata da un cliente senza bisogno di un negozio di dischi o di un esperto che glielo consiglia. Notate bene che il canale di distribuzione in questo caso abilita una visibilità a livello globale (pluralità di soggetti che offrono - pluralità di soggetti che domandano). Il tutto avviene simultaneamente, scelta, pagamento, ottenimento del servizio. Il risultato oggi è che i negozi di musica sono quasi tutti chiusi, chi produce CD vergini e custodie per CD così come chi organizzava la distribuzione della musica su formati fisici hanno probabilmente chiuso la loro attività (qui un approfondimento). iTunesStore è il primo venditore di musica al mondo. Ma non è l'unico, non è un monopolio, oggi altre attività come Spotify stanno mettendo in discussione il business model di iTunesStore. Il bello dell'ICT è appunto la competizione! Yahoo ha aperto prima di Google ed aveva un'enorme fetta di mercato, oggi le parti sono invertite!  


Torniamo a UberPop ed in particolare ad un intervento del Ministo dei Trasporti e delle Infrastrutture, presente sul suo sito web:


Perchè Uberpop non rispetta le norme?
“Però – ha continuato il Ministro ai microfoni di Simone Spetia – noi dobbiamo intervenire per una semplice cosa: chi garantisce che, se una mamma o una figlia usano Uberpop come applicazione, colui che le va a prendere a fronte di un prezzo più basso, abbia l’assicurazione della sua macchina, sia abilitato a guidare quella macchina, non guidi in stato di ebbrezza? Chi dà la garanzia che quel servizio sia effettivamente un servizio pubblico efficiente e chi si assume la responsabilità di questo?”
“Quindi – ha spiegato ancora Maurizio Lupi – l’intervento duro è stato fatto su Uberpop e abbiamo detto con responsabilità, come è giusto che fosse in qualsiasi paese civile e quando si tratta di un servizio pubblico non di linea con corrispettivo di pagamento, devono esserci gli elementi previsti dalla legge perchè i soggetti esercitino.
Non è che un ragazzo solo perché ha tre ore di tempo può esercitare quella professione, perché, per esercitare quella professione deve dare delle garanzie come tutti gli altri lavoratori fanno”.


Nella risposta non si parla di norme in senso stretto, ma più che altro di rischi. Gli stessi che l'autostoppista, consapevolmente, o no, accetta quando decide di fare autostop. Se i problemi sono i rischi, vi sono delle soluzioni, ad esempio il Ministero dei trasporti potrebbe consentire, agli automobilisti che lo desiderano, la trasparenza dei loro profili presso la motorizzazione, in modo tale che coloro che usufruiscono del servizio possano sapere chi dà loro un passaggio a pagamento. Potrebbero far sapere: quando la vettura che utilizzeranno ha passato l'ultima revisione, la storia pregressa del guidatore, le eventuali multe e tutte le informazioni grazie alle quali si può giudicare l'affidabilità o meno della persona che offre il servizio e dell'automezzo che guida . Il tutto praticamente a costo ZERO!

Certo vi sono altre variabili, questa persona potrebbe aver guidato per 20 ore di fila, potrebbe essere drogato o ubriaco o mentalmente instabile. Tutti questi problemi possono essere però riscontrati ed essere ignoti al passeggero anche se il servizio viene fatto dalle altre due categorie. Il tassista potrebbe aver guidato per un numero di 15 ore la sua vettura privata in un contesto estraneo al suo lavoro e poi iniziare salire sul taxi, oppure, potrebbe assumere sostanze non compatibili con la guida e il passeggero non avrebbe alcun modo di saperlo! E' del tutto evidente che entrambi i guidatori devono rispettare il codice della strada! Se non si parte da questo concetto basilare, la mamma e la figlia descritte da Maurizio lupi non dovrebbero nemmeno camminare su un marciapiede, sia mai che un guidatore che utilizza UberPop (o anche no) esca di strada.


Senza cadere troppo negli estremi, stando alla descrizione del Ministro, anche l'autostop dovrebbe essere illegale, in quanto i rischi da egli esposti, sono gli stessi che una persona incontra nel fare l'autostop! Dovrebbe essere illegale BlaBlaCar così come altri servizi di sharing che il governo in primis dice di voler promuovere! La normativa promuove (D.M. 27/3/98) e predilige (articolo 22 legge 340 del 24 novembre 2000) la progettazione di sistemi di mobilità urbana al fine di ridurre l’uso individuale dell’automobile.


1. Al fine di soddisfare i fabbisogni di mobilità della popolazione, assicurare l'abbattimento dei livelli di inquinamento atmosferico ed acustico, la riduzione dei consumi energetici, l'aumento dei livelli di sicurezza del trasporto e della circolazione stradale, la minimizzazione dell'uso individuale dell'automobile privata e la moderazione del traffico, l'incremento della capacità di trasporto, l'aumento della percentuale di cittadini trasportati dai sistemi collettivi anche con soluzioni di car pooling e car sharing e la riduzione dei fenomeni di congestione nelle aree urbane, sono istituiti appositi piani urbani di mobilità (PUM) intesi come progetti del sistema della mobilità comprendenti l'insieme organico degli interventi sulle infrastrutture di trasporto pubblico e stradali, sui parcheggi di interscambio, sulle tecnologie, sul parco veicoli, sul governo della domanda di trasporto attraverso la struttura dei mobility manager, i sistemi di controllo e regolazione del traffico, l'informazione all'utenza, la logistica e le tecnologie destinate alla riorganizzazione della distribuzione delle merci nelle città. Le autorizzazioni legislative di spesa, da individuare con il regolamento di cui al comma 4, recanti limiti di impegno decorrenti dall'anno 2002, concernenti fondi finalizzati, da leggi settoriali in vigore, alla costruzione e sviluppo di singole modalità di trasporto e mobilità, a decorrere dall'anno finanziario medesimo sono iscritte in apposito fondo dello stato di previsione del Ministero dei trasporti e della navigazione.




Vorrei quindi capire in che modo il ministero definiva le attività di car pooling e car sharing nel 2000. Qui riporto le definizioni che potete tranquillamente cercare su Wikipedia.


Il termine inglese car pooling, corrispondente in italiano ad auto di gruppo o concarreggio, indica una modalità di trasporto che consiste nella condivisione di automobili private tra un gruppo di persone, con il fine principale di ridurre i costi del trasporto. È uno degli ambiti di intervento della cosiddetta mobilità sostenibile.

Il car sharing (dall'inglese auto condivisa o condivisione dell'automobile) è un servizio che permette di utilizzare un'automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola in un parcheggio, e pagando in ragione dell'utilizzo fatto.

La definizione di carpooling è, per come io la interpreto, una macro-categoria che può tranquillamente includere il servizio che viene erogato usufruendo di UberPop. Rimane il fatto che l'utilizzo dell'app si possa prestare ad organizzare un lavoro, più che per arrotondare mentre si fa un tragitto. Alla fine però, spero che tutti possiamo convenire che il car pooling, così come definito, ha gli stessi rischi descritti dal Ministro nella descrizione di UberPop. L'effetto "trust" che contraddistingue i servizi di car pooling (amici/famigliari/conoscenti) non è discriminatorio tra guidatori che lo fanno gratuitamente o per denaro, in quanto rimangono pur sempre persone che non effettuano quel servizio di professione come i tassisti e coloro che offrono un servizio di NCC. Quindi quando si accetta di salire e ottenere un passaggio, gratuito o pagato si accettano i rischi.

Se l'idea è quella di rendere illegittimo l'uso di UberPop per i motivi esposti dal Ministro, a questo punto dovremmo rendere illegittimo il passaggio agli autostoppisti, BlaBla.car, i servizi di carpooling e tutti i servizi digitali simili a UberPop che sono già sul mercato ma meno popolari!

Nel post precedente, che trattava Uber, comparavo l'attività del tassista vent'anni fa, oggi e tra vent'anni. Ebbene voglio chiudere con un intervista a un esperto, il direttore del Senseable City Lab - M.I.T. Boston - Carlo Ratti. Secondo ricerche derivanti da dati scientifici (non sparate elettorali che siamo abituati a sentire in questi ultimi giorni in campagna elettorale), nel medio futuro con l'ausilio di veicoli driverless e con lo sharing, l'esperto afferma che tutti potrebbero raggiungere il luogo desiderato, nei tempi desiderati utilizzando il 20% delle automobili! Quello che mi fa riflettere è l'ultima frase "..potremmo portare tutti a destinazione esattamente quando lo desiderano tirando via 4 macchine su 5 dalle strade!"

Vi invito a pensare a questa affermazione e poi calarla nel sistema economico così come lo conosciamo. Da lì capirete perché ho intitolato questo post "...sharing economy e una difficile via per il successo".

lunedì 19 maggio 2014

Uber, un esempio di qualcosa che non si può fermare, la tecnologia!

Uber, è un'applicazione che mette in comunicazione domanda e offerta per il trasporto di persone nei centri urbani mediante il servizio di noleggio con conducente (N.C.C.). In questi giorni si fa un gran parlare della disputa con le associazioni e i sindacati che rappresentano la categoria dei tassisti che vedono nell'applicazione la concorrenza sleale e addirittura l'illegalità!




Il problema delle disputa è una legge che differenzia il servizio offerto da taxi e servizi di noleggio con conducente. Riprendendo un articolo del fatto quotidiano:

La legge 21/1992 prevede che le auto ncc stazionino in un’autorimessa, che non girino sul suolo pubblico attendendo clientela e che il prezzo della corsa sia contrattato preventivamente. Oltretutto, per i noleggiatori non è previsto l’obbligo di corsa, come per i tassisti. Questo vuol dire che i ncc possono rifiutare alcune corse. “Noi chiediamo solo l’applicazione della normativa –  spiega Marco Marani del sindacato dei tassisti Unica Taxi Filt Cgil – qui a Milano fino a qualche mese fa si conviveva bene, perché ognuno faceva il proprio servizio, rispettando le regole. Con questa applicazione non viene rispettata la legge quadro”.


Questo è un tipico esempio di come la legge sia una barriera all'innovazione. La legge è del '92, non esisteva ancora l'SMS, che oggi sta pian piano scomparendo! L'applicazione è quanto di più comodo ci sia in termini di tracciabilità, interazione domanda-offerta, pagamenti e generazione di dati utili per capire il traffico e via discorrendo. Dall'altro lato, i tassisti hanno investito denaro in una licenza (in parecchi casi molto salata), che prevedeva determinate regole, e garantiva, con una certa probabilità, un certo ritorno economico. Un'esempio plastico di come non liberalizzando un mercato lo Stato abbia creato un pasticcio, ma soprattutto di come la tecnologia possa stravolgere un intero settore!

Questo è il punto fondamentale spesso sottaciuto o fatto passare in secondo piano nel dibattito nazionale. Prendiamo il lavoro del tassista/NCC (senza distinzioni: una persona impiegata nel guidare un mezzo per trasportare Tizio da A a B), oggi, vent'anni fa e pensiamo a come sarà la sua mansione tra vent'anni. Il lavoro di questo "prestatore di servizio" consiste nel trasportare un cliente ed eventualmente i suoi bagagli da A a B. Chiaramente, per sopravvivere nella concorrenza deve trovare clienti e/o associarsi con altri lavoratori nella stessa categoria in un'associazione che riceva le richieste per poi distribuirle ai vari associati e via discorrendo. Vent'anni fa questo tassista doveva conoscere la città o la zona dove abitava, studiarsi cartine, nomi di vie, insomma doveva imparare a fare un lavoro che richiedeva una certa pratica. Col tempo avrebbe poi appreso le strade più veloci in base alle diverse ore del giorno, si doveva tenere informato sui lavori in corso eccetera eccetera eccetera. Nei casi più avanzati aveva un cellulare e veniva chiamato dal centro base per una prenotazione, altrimenti veniva fermato per strada all'occorrenza. Quando il cliente saliva sulla vettura adibita al trasporto, il guidatore doveva capire l'indirizzo, attivare il tassametro, alla fine della corsa riscuotere, fare una ricevuta cartacea, tenere i conti per la dichiarazione dei redditi, versare un'eventuale percentuale all'associazione e chi più ne ha più ne metta. Oggi lo stesso lavoratore potrebbe non associarsi con nessuno, lavorare da solo e aspettare la richiesta diretta di un cliente per via telematica, questa una volta vagliata/accettata gli fornirà direttamente le coordinate del prelievo e della destinazione. Non serve che il guidatore sia super-esperto del luogo (anche se di certo aiuta); un GPS gli traccerà il percorso migliore, con applicazioni come Waze addirittura il tracciato migliore in real time tenendo conto del flusso sulle varie alternative, di eventuali lavori sui possibili tragitti e così via. Non dovrà riscuotere, il tutto viene fatto dall'applicazione, così come un altro software potrebbe gestire la dichiarazione degli introiti. Proviamo solo a immaginare come questo servizio sarà tra vent'anni; il guidatore forse non sarà più necessario o magari ci sarà ma non dovrà nemmeno guidare. Non è un segreto che Google abbia già testato una macchina senza conducente per migliaia di miglia con risultati straordinari.



La morale di questo racconto è che sparisce sempre più tutto ciò che è accessorio, fino ad arrivare a rimuovere l'apporto umano a un determinato servizio. Di per sè Uber facilita l'interazione domanda offerta eliminando tutto il superfluo; coloro che si occupano di prendere e trasmettere la prenotazione, la gestione del contante/pagamento, la perdita di tempo per contrattazione e possibili misunderstanding su prelievo e destinazione. Tutto questo generando dati su corse, traffico, prenotazioni, fatturazioni e molto altro in maniera automatica in modo da poter gestire tale servizio in maniera sempre più efficiente grazie all'analisi dei dati. Forse non ve ne siete accorti ma tuttociò succede più o meno in tutti i settori!

Al termine degli anni '80 sono stati introdotti quelli che noi chiamiamo in maniera impropria "Bancomat". La sigla inglese ATM ha molto più senso e significa Automated Teller Machine. Ossia una macchina automatica che sostituisce lo sportellista. Vi ricordate la pubblicità di Autostrade S.p.A. "abbiamo inventato il Telepass che vi fa risparmiare tempo", cancellando o riducendo all'osso i casellanti, così come i Tutor e l'Autovelox riducono il numero di poliziotti necessari a far rispettare il codice della strada. In aeroporto il check-in è automatico, così come il baggage-drop per molti voli low cost, il biglietto ormai non lo stampi più, mostri un QRCode sullo smartphone. La musica non si acquista più né nel negozio specializzato né sulle bancarelle alla sagra del paese ma principalmente su piattaforme online come iTunes Store, con relativo crollo dei posti di lavoro nell'indotto (qui ne parlo in dettaglio). Iniziano a diffondersi anche le casse automatiche ai supermercati dove la gente si passa i prodotti acquistati e paga con carta di credito, senza la necessità di operatore, come si usa da anni ai distributori di benzina automatici. In Danimarca perfino i pacchi e le lettere seguono lo stesso principio, ci sono delle postazioni con computer e bilancia dove i cittadini pesano buste e pacchi, applicano i bolli che vengono stampati in base ai dati immessi e portano infine il pacco nello scomparto indicato per la spedizione. Ancora ricordo quando sono salito la prima volta sulla metro; seduto in prima fila avevo davanti solo il vetro, la metro a Copenaghen è senza conducente. I casi di cui si potrebbe parlare sono molti, ma non vado oltre.

Cosa manca in questo elenco? Bè mancano i servizi erogati dalla PA! Nella mia provincia stanno iniziando ad automatizzare le prenotazioni dei servizi sanitari centro unico prenotazioni (CUP). Da internet si possono semplicemente prenotare visite di vario genere. Stanno anche lavorando per mettere online il catasto ed hanno imposto l'iscrizione degli alunni di scuole elementari, medie e superiori via internet. La strada da fare è però lunga e la macchina dell'amministrazione pubblica va lenta con qualcuno che gli buca le gomme. Già, perché così come succede in questi giorni con i tassisti, quando una tecnologia mette in pericolo lo status quo o la posizione che garantisce uno stipendio con cui vivere, non fa piacere a nessuno accettare che il proprio lavoro sia messo in discussione da qualche riga di codice. Consiglio un paio di libri scritti dalla stessa coppia di docenti dell'MIT: "Race Against The Machine" (2011) e "The second Machine Age" (2014) By Erik Brynjolfsson and Andrew McAfee.



La verità è che prima o poi tale cambiamento avverrà (sono le regole del "gioco"), più si ritarda e più se ne pagheranno i costi! Non si può (e non si deve) fermare o rallentare l'innovazione, bisogna rendersi conto che il modello economico-sociale così come lo abbiamo conosciuto per anni sta cambiando radicalmente. Dobbiamo mettere questo aspetto al centro del dibattito politico, senza se e senza ma. La rivoluzione digitale sta attaccando in maniera preponderante il terziario, quel settore dove nei paesi industrializzati è impiegato il 70% della forza lavoro occupata! Regolamentare il mercato per fermare la crescita di soluzioni innovative non è la soluzione! Bisogna ragionare sugli impatti della tecnologia sul lavoro e valutare se questo stia man a mano perdendo il suo valore originale all'interno del sistema socio-economico. In tal caso, la riforma del lavoro necessaria sarebbe molto più ampia di quella al vaglio del nostro parlamento in questi giorni...

Ho posto la domanda relativa a questo fenomeno che più di ottant'anni fa Keynes chiamava "Technological Unemployment" a Romano Prodi qualche mese fa, ecco la sua risposta:





martedì 29 aprile 2014

La riorganizzazione, l'efficientamento, la sinergizzazione... in parole povere la disoccupazione tecnologica.

Alcune delle parole che ho usato nel titolo ricorrono quotidianamente altre no. In questi giorni si dibatte molto il piano presentato da Cottarelli sulla spending review. Altrettanto dibattute alcune misure di tipo più politico che l'attuale governo sta man mano approvando come la diminuzione delle auto blu, il taglio del senato della repubblica, delle province, del CNEL e di altri enti che a detta dell'attuale Presidente del Consiglio non apportano alcuna utilità al Paese e rappresentano quindi un costo. Il piano di Cottarelli prevederebbe esuberi per 85.000 persone nel pubblico impiego, Matteo Renzi con il suo taglio alla politica promette di ridurre di 3000 il numero dei politici. Questo, sempre se realizzato, potrebbe essere considerato un efficientamento. D'altro canto queste persone non avranno più un posto di lavoro, anzi ad essere precisi non ci sarà più quel posto di lavoro. La verità è che seppur importante come riduzione di personale non è nemmeno paragonabile al risultato di una vera riforma della PA, quella che si potrebbe chiamare sinergizzazione della funzione pubblica.

Pensate per un attimo che le funzioni dello Stato debbano essere tutte re-implementate, così come i processi che deve adempiere il singolo cittadino o la singola impresa verso la PA e viceversa. In questo ipotetico sistema paghereste del personale per distribuire e analizzare questionari cartacei per monitorare il livello occupazionale o costruireste un sistema informatico digitale che vi possa dare dati certi in tempo reale? Dareste ai cittadini ancora carte d'identità di carta pregiata oppure utilizzereste un sistema avanzato di riconoscimento con la possibilità di fare un match tra il cittadino e i servizi che utilizza grazie all'autenticazione che l'identità gli consente? Mettereste in piedi un sistema informatico che permette ad aziende e cittadini di avere la loro situazione fiscale sempre sotto controllo, con un canale telematico diretto verso la PA per eventuali controversie o gli lascereste in balia di uffici multipli talvolta perfino con competenze sovrapposte?





La verità è che i numeri proposti sono solo un assaggio di quello che potrebbe essere fatto se venisse eliminato il digital divide. Il risparmio sarebbe notevole, ma non sarebbe solo un risparmio di risorse materiali o di punti di PIL investiti in spesa pubblica, bensì sarebbe un risparmio di risorse umane. In parole povere il tutto causerebbe disoccupazione, quella che più di ottant'anni fa J.M.Keynes definiva "disoccupazione tecnologica". Un paio di docenti del MIT hanno scritto un bel libro a proposito, lo consiglio spassionatamente -> Race Against the Machine


Sono molti gli scettici, eppure il cambiamento è sotto i loro occhi ogni giorno. Ogni volta che passiamo il casello di un'autostrada usando il telepass, quando prendiamo un volo low cost, ogni volta che utilizziamo wikipedia piuttosto che la fotocamera dello smartphone stiamo godendo di progressi tecnologici che hanno cambiato il modo di vivere e allo stesso tempo cancellato posti di lavoro. L'esempio più lampante è forse quello del mondo della musica. Tornando indietro negli anni ci accorgiamo che sono avvenute svariate innovazioni radicali. Sto parlando dell'avvento della musicassetta che è andata progressivamente a sostituire il vinile, così come poi è successo con il CD-ROM fino ai giorni nostri, o meglio una decina di anni fa con l'MP3. Fino all'ultima innovazione c'era bisogno di un sistema logistico che seguisse l'intera catena dalla produzione alla distribuzione. Bisognava produrre un supporto fisico, passare per uno studio di registrazione, le tracce andavano poi incise sui diversi formati, questi andavano poi distribuiti nei vari punti vendita, esposti e venduti. Questa catena contava un'innumerevole serie di lavoratori che l'attuale modello di produzione e distribuzione di materiale audio non prevede più. Inoltre il fatto che un album venda 100 o 10 milioni di copie non comporta il benché minimo aumento di lavoro in termini di personale (ecco un post che parla dell'innovazione nel campo della musica). Voi direte che questo vale solamente per il campo della musica o al più dell'intrattenimento (giochi, libri, film) ma come ho spiegato il tutto va a incidere sull'indotto. Ad ogni modo vi sbagliate se credete che gli altri settori non siano interessati dai cambiamenti che la tecnologia sta apportando sempre più nel nostro mondo.

La tecnologia non comporta solamente i settori high tech, è invece trasversale e va ad impattare su tutti i settori. Cambia la vita all'albergatore che riceve le prenotazioni online così come i pagamenti, cambia la vita di chi guida i treni nelle metropolitane (a Copenaghen la metro è senza conducente) cambia la vita a chi lavora nei magazzini che sono sempre più automatizzati. Potrei dirvi che a breve cambierà la vita anche ai muratori, dei macchinari in stile stampante 3D sono già in fase di studio per la costruzione di stabili. Il vostro smartphone è già in grado, anche se non perfettamente, di capire la vostra voce. La tecnologia continua ad avanzare con ritmo esponenziale e sempre più lavori sono a rischio. Non riconoscere questo cambiamento che porterà man mano all'aumento della disoccupazione o alla presenza di lavori rimpiazzabili dalla tecnologia è semplicemente anacronistico.



Chi promette di creare i presupposti e le condizioni per creare posti di "lavoro" e allo stesso tempo di risparmiare, efficientare, sinergizzare o riorganizzare i processi così come li conosciamo in questo Paese, si contraddice. Se tagliamo le auto blu, dovremmo tagliare anche coloro i quali quelle auto le guidano, se semplifichiamo la PA, gli addetti alle procedure che andranno a sparire si troveranno anch'essi senza lavoro. Di per sé la difficoltà non sta nel creare lavoro, lo è altresì creare posti di lavoro produttivi.

Voglio citare un aneddoto raccontato da un amico dal premio nobel all’economia (1976) Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006).

Una volta, a cena, Milton ricordò che negli anni Sessanta si trovava in un Paese asiatico e di aver visitato un cantiere per la realizzazione di un canale. Friedman rimase colpito dal fatto che, anziché servirsi di macchinari e ruspe, gli operai usavano pala e piccone e chiese al suo accompagnatore per quale motivo non venivano usate più macchine. Il funzionario statale rispose: «Lei non capisce: questo è un programma per la creazione di posti di lavoro». Al che Milton rispose: «Ah, credevo che voleste scavare un canale. Se quello che volete sono più posti di lavoro, allora dovreste dare a questi operai dei cucchiai, non delle pale».


Questo aneddoto spiega quanto “facile” sia “creare” lavori improduttivi, mentre incoraggiare lo sviluppo di lavori che devono misurarsi con le regole di mercato e la concorrenza, spesso internazionale, è ben altra cosa.

L'argomento sarebbe lunghissimo da dibattere, chiudo quindi con un pezzo tratto dal Corriere della Sera che riassume in maniera molto efficace la situazione... correva l'anno 1998!


Qual e' la causa di una disoccupazione il cui livello fisiologico dovrebbe essere del 5 - 6 per cento e che invece veleggia da tempo, in troppi Paesi dell'Ue, a livelli del 10 - 12 per cento? Le cause sono ovviamente parecchie. Ma quella più sottaciuta dagli economisti e' che la disoccupazione della fine del XX secolo ha, come sua fonte primaria, il progresso tecnologico, e quindi un fattore strutturale. Agli economisti non piace ammetterlo, perché la loro farmacopea sa curare le crisi congiunturali assai meglio delle crisi strutturali. Ma tant'è. La tecnologia produce disoccupazione per la semplicissima ragione che la macchina sostituisce il lavoratore. Per circa due secoli non e' stato così perché il lavoratore sostituito dalla macchina è stato rioccupato nella produzione delle macchine. Ma questo riassorbimento virtuoso è stato inceppato dalla macchina che fabbrica la macchina, dai robot. Il problema è stato eluso per alcuni decenni inflazionando il terziario e la cosiddetta società dei servizi. La società dei servizi e' stata osannata senza che gli economisti ne avvertissero l'insidia, e cioè che stavano nascendo società parassitarie, società iperburocratizzate caratterizzate da occupazioni improduttive (e di cui gli economisti non sanno misurare la produttività). Non poteva durare, e difatti il bubbone è scoppiato. E a questo punto è troppo tardi per rimediare alla svelta. Se mai ci fosse stato, oggi il pronto rimedio non c'è più. Non è vero, pertanto, che il problema si risolve con gli investimenti, investendo di più. Se l'investimento è in tecnologia, se è ancora in macchine (o, come si dice in inglese, capital intensive), allora non riduce la disoccupazione. La disoccupazione è ridotta solo da investimenti labour intensive, e cioè indirizzati su attività che richiedono mano d'opera, lavoro a mano. E se le cose stanno così, così va detto. Ma va anche detto chiaro e forte che non dobbiamo inventare mano, o mani, d'opera che sono soltanto mani improduttive e quindi costi improduttivi, costi che aggravano i nostri già gravissimi problemi.”

martedì 22 aprile 2014

Una dashboard per il cittadino!

Spinto da alcune affermazioni del Presidente del Consiglio Matteo Renzi sugli OpenData, la promessa di rendere pubblici, in formati accessibili e analizzabili, i dati degli enti locali, ho scritto un post sull'importanza della qualità dei dati prima ancora che questi siano condivisi. Nella mia riflessione evidenzio come ci sia bisogno di persone curiose e capaci che mettano in piedi delle applicazioni utili per il cittadino qualunque, in modo da dare un valore a questi dati. Ebbene una delle prime iniziative che dovrebbe fare il governo, nel segno della trasparenza, potrebbe essere una dashboard del cittadino.


Per dashboard si intende volgarmente un cruscotto dove si possono tenere sott'occhio diversi valori. E' uno strumento che tutti noi consapevolmente o inconsapevolmente utilizziamo spesso, quando guidiamo un'automobile ad esempio o quando consultiamo i widget nella nostra dashboard su un qualsiasi device elettronico per controllare la situazione meteo, la nostra finanza, quello che fanno al cinema o i feed RSS che più ci interessano. Ebbene il governo per essere veramente trasparente dovrebbe impegnarsi non solo a fornire dati statici ma anche dati aggiornati in tempo "reale", quindi uno stream di dati.

Da parecchi anni molti giornali online integrano a margine una mini-dashboard che mostra alcuni indici finanziari. Tra questi troviamo le quotazioni degli indici di riferimento delle varie nazioni avanzate e dal 2011 (almeno da quello che io ricordo) possiamo anche controllare lo Spread BTP-BUND. Questo dato viene aggiornato più volte al giorno. Perché il governo non dà il via ad un'iniziativa volta a realizzare una dashboard completa con i dati a sua disposizione? Online potete trovare un'iniziativa simile, si chiama "Italia-ora" dove vengono mostrati per l'appunto dati di interesse comune, come la popolazione censita, con il numero di persone nate o decedute nel giorno corrente, le variazioni da inizio anno, la presenza di persone di origine non italiana regolarmente registrate sul nostro territorio e così via. Vi sono dati sull'economia, l'ammontare attuale del debito pubblico, il numero di precari, il numero di disoccupati e molto altro riguardo diversi campi, dalla salute alla comunicazione. Certo, molte di queste informazioni sono effettivamente delle STIME, non dei dati (ricordiamo che nemmeno la PA conosce il vero dato sulla disoccupazione, che è invece il risultato di un'inferenza). Questo sito web prende i dati (quelli disponibili) dalla PA e tramite formule matematiche e statistiche simula o meglio inferenza quanto a disposizione per fornire informazioni "real time" al cittadino.



La PA, al contrario, può disporre di questi dati in tempo reale! L'ammontare del debito pubblico, non è una cifra aleatoria in un dato momento, ma un importo certo che varia nel tempo in base alle aste pubbliche di emissione di titoli di Stato. Ebbene sapete dirmi a quanto ammonta precisamente il debito in questo momento? O quanti interessi sul debito abbiamo pagato quest'anno? La risposta è probabilmente "NO!", ma i dati per rendere pubbliche e facilmente consultabili e analizzabili queste informazioni esistono. Lo stesso discorso vale per molte altre fattispecie! Quante persone ricevono un sussidio di disoccupazione o usufruiscono di CIGO, CIGS o cassa integrazione in deroga in una determinata provincia o comune? Quante ore sono state erogate? Quante persone sono nate in un determinato comune, quante sono decedute, quanti immobili sono stati alienati, quante e quali aziende sono presenti e registrate... quante attività imprenditoriali sono state aperte in un determinato lasso di tempo, quante chiuse?


La lista dei topic che mi viene in mente senza pensarci troppo è molto lunga, le informazioni che potrebbero essere messe a disposizione dalla PA in tempo reale sono molteplici, il tutto senza andare a intaccare il diritto alla privacy e senza dover spendere cifre esorbitanti. Già, quando un bimbo nasce poco dopo viene registrato all'anagrafe e/o in comune, quando una persona muore, viene redatto un atto, lo stesso quando si dà vita ad un'azienda o quando si autorizzano ore di cassa integrazione o periodi pagati di disoccupazione a chicchessia. Questi processi potrebbero quindi passare per un procedimento informatizzato che potrebbe automaticamente generare i dati per aggiornare la dashboard del cittadino, permettendogli di consultare i dati disponibili in tempo "reale". Al momento il miglior esempio in questa direzione è l'OpenData che in qualche città sta prendendo piede, ma che rimane spesso limitato nella qualità dei dati.




Alcuni grandi centri urbani si stanno muovendo in questa direzione, utilizzando per la maggiore valori "statici", pubblicazioni periodiche, non flussi di dati, cioè quello che servirebbe per avere sia la situazione attuale che uno storico. Il risultato è che l'OpenData fatto in questa maniera, con pubblicazioni statiche di dati, rimane un passettino nella giusta direzione; quello che invece potrebbe essere un "giant leap" parafrasando Neil Armstrong sarebbe rendere pubblici stream di dati. Se veramente questo governo punta a fare dell'OpenData una bandiera del suo operato un'iniziativa in tal senso (realizzare una dashboard per il cittadino aggiornata in real time e rendendo pubblici i flussi di dati) sarebbe sicuramente ben vista da chi con gli OpenData ci lavora e, soprattutto, un grande passo in avanti sulla via della trasparenza nei confronti di tutti i cittadini.

Questo è solo un'appello ... 

lunedì 21 aprile 2014

L' OpenData è una battaglia importante, dove la qualità è molto più importante della quantità!



Nella conferenza che ha seguito il consiglio dei ministri pre pasquale, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha illustrato molte misure di vario genere una delle quali riguarda proprio l'OpenData.


Per il momento non posso far altro che plaudere a questa misura. Tra sessanta giorni controllerò se questa promessa verrà mantenuta, senza però dare solamente un giudizio binario "Sì/No" ma dando una grandissima importanza al "come"... 

"Information is the oil of the 21st century, and analytics is the combustion engine,” - Peter Sondergaard

"I dati sono il petrolio del futuro e la loro analisi è il nostro motore a scoppio".

Voglio iniziare questo post così, con una citazione, una citazione semplice, una metafora che contiene molte verità. Piero Angela in uno degli ultimi libri che ho letto parlava così del petrolio..

“Il petrolio non è mai servito a niente, se non ad alimentare lucerne e a calafatare le imbarcazioni. Non è mai stato una fonte energetica. Marco Polo ne aveva parlato nel Milione come di una curiosità, dopo averlo visto durante il suo viaggio verso la Cina.
Il petrolio infatti è una “tecnologia”, non una ricchezza. È un liquido maleodorante che è oggi prezioso solo perché è diventato uno dei componenti del motore, insieme ai pistoni, al cilindro, alla batteria, alle candele ecc. Improvvisamente l’invenzione di questo nuovo modo di usarlo ha sconvolto l’economia e la politica: siccome in questo modo il petrolio si è trasformato in fonte energetica (di per sé non lo era), non solo ha fatto girare ruote di ogni tipo (dalle auto alle turbine) ma ha trasformato in potenze economiche i paesi che casualmente lo possedevano nel loro sottosuolo, scatenando colossali affari, accordi economici e strategici, investimenti stratosferici (con tangenti altrettanto stratosferiche), interventi militari, persino guerre. Tutto questo per un liquido puzzolente che non è mai servito a niente e che la tecnologia ha reso invece preziosissimo. Il prezzo del petrolio in Borsa è il risultato del software che c’è dietro, altrimenti non varrebbe niente.”
[From: Piero Angela - “A cosa serve la politica?”] 

In queste poche righe si evince la similitudine fortissima con i dati. I dati non sono un'invenzione moderna, ci sono da molti anni anche in formato elettronico! Gli OpenData rappresentano invece una battaglia moderna proprio per far arrivare i dati a tutti coloro che ne possono trarre benefici. Come il petrolio i dati devono essere "raffinati"; organizzati quindi secondo best practices scientifiche che ne garantiscano una più veloce analisi da una platea sempre più ampia.

Già, la platea, i più nei loro spot sugli OpenData se ne dimenticano...

Inizialmente, solo pochi erano convinti e credevano nei possibili impieghi e gli innumerevoli scenari che il petrolio poteva cambiare. Molti li credevano dei sognatori o addirittura dei pazzi. Erano quelli che ora chiameremo gli early adapters. Col passare del tempo alcuni risultati iniziarono ad arrivare e gli esperti interessati a questa nuova tecnologia accrebbero e così si arrivò a quella che potrebbe essere definita una milestone della storia umana: il motore a scoppio. Oggi ci sono un discreto numero di persone che sanno guidare... sono molte meno quelle che sanno costruire un motore.

Per quanto riguarda i dati siamo oggi nella stessa situazione. In generale, non sono molte le persone che sanno manipolare grandi quantità di dati in diversi formati, strutturarli in maniera scientifica, effettuare query complesse e presentare visualizzazioni utili all'utente finale. Ricordo che in questo Paese, solo il 55% della popolazione ha accesso a internet (Dati ISTAT), perché non ha la minima cultura digitale (il 26,5% considera Internet inutile e non interessante - Dati ISTAT) e infine perché non è stata istruita a capirne e apprezzarne i vantaggi.

Quei pochi che hanno le competenze necessarie e idee per creare un "motore a scoppio", talvolta sono scoraggiati dalle caratteristiche del petrolio che hanno a disposizione. Per varie fattispecie, spesso si trovano a lavorare con dei dati che sono come petrolio a cui è stata aggiunta acqua invece che applicargli i giusti processi per fargli guadagnare ottani.


La materia prima, i dati grezzi, devono essere di qualità, non devono essere aggregati, non devono riferirsi a decadi fa, a meno che non facciano parte di uno storico (raro come i diamanti), non devono essere ridondanti e non devono essere inconsistenti. Devono essere in formato aperto, ridistribuibile e facilmente analizzabile da un calcolatore. Un file pdf per capirci è quanto di più scomodo si possa trovare in mano uno sviluppatore, seppur forse la via più veloce per la PA per condividere informazioni. Ebbene questa modalità, pur rientrando in una definizione larga di OpenData, va contro lo spirito vero che promuove l'analisi, il riuso del dato aggregandolo con altri per produrre così informazioni.

Ancora una volta la situazione è simile a quella del petrolio. Servono ingegneri, informatici, interface designers e molti altri professionisti per costruire uno o meglio molti "motori a scoppio", ossia applicazioni di indubbia utilità per gli utenti. Non è ancora finita, come con le automobili, bisogna che gli utenti imparino a guidarle. Tutto questo non avviene dall'oggi al domani, ecco perché anche la cultura digitale deve essere spinta con provvedimenti dall'alto che mirino alla formazione del cittadino (l'agenda digitale dovrebbe andare anche in questo senso). Serve anche cultura del dato; i dati grezzi e le informazioni derivanti devono essere ben documentate e presentate per quello che sono, non manipolate per creare disinformazione e quindi vanificare il lavoro fatto a monte per portarle alla luce (un'esempio che propongo è la disinformazione fatta con LE STIME - non i dati - sul tasso di disoccupazione).

Infine, bisogna ricordare che, come il petrolio, i dati sono nelle mani di pochi: dei governi, dei colossi dell'informatica, delle banche e delle multinazionali. Ma a differenza del petrolio, i dati sono anche nelle mani di tutti noi! Non esito a definire sorprendenti alcuni servizi che derivano da dati generati principalmente da utenti che senza alcun compenso hanno inserito il significato, parola dopo parola di milioni di termini su Wikipedia oppure marcato strade, piazze, palazzi e molto più di quanto possiate immaginare su OpenStreetMap. Tuttociò fa pensare a quanto sarebbe possibile realizzare se la collettività avesse accesso alle grandi quantità di dati, già raccolti e che non vengono condivisi. Molti possono non esserne consapevoli, ma negli ultimi anni vi è stata una data explosion che ha portato a produrre in un lasso di tempo molto breve l'ammontare di dati prodotto nella storia umana precedente! Oggigiorno si raccolgono dati su ogni fattispecie immaginabile, dall'economia alla mobilità di persone e merci sulle strade, nei centri commerciali, nel web... dati sui fenomeni meteorologici, naturali e climatici... dati sulla salute, sulle sperimentazioni e sulle cure mediche e molti altri aspetti che potrebbero essere per noi perfino inimmaginabili! Le possibilità offerte potrebbero essere quasi senza fine...



Le barriere rimangono però moltissime, ed è su queste che bisogna lavorare, in primis sulla cultura digitale e del dato, che prima ancora di essere condiviso deve essere di qualità.

giovedì 17 aprile 2014

Perché l'agenda digitale deve essere spinta dall'alto...

Avete mai visto o sentito di una manifestazione, degna di questo nome, contro il "Digital Divide" in questo Paese? Forse ho utilizzato un termine poco consono, riformulo, avete mai visto una manifestazione degna di questo nome contro l'arretratezza digitale in questo Paese? Io no. Se prendete un passante e gli chiedete cos'è il Digital Divide la mia opinione è che non saranno molti a rispondervi, non solo in maniera sufficiente, ma nemmeno circostanziata riguardo il significato del termine. Se provate a semplificare e gli chiedete se percepisce la mancata digitalizzazione del sistema Paese come un problema serio nella sua vita, probabilmente, moltissimi vi risponderanno di no. Probabilmente, inizieranno a fare una lista di molti altri problemi, che per loro non sono connessi con l'arretratezza digitale. Sono pochi quelli che si rendono conto che l'aspetto digitale è pervasivo ormai in ogni settore.


Voglio raccontarvi un espediente che ho avuto in questi giorni, dovendo prenotare alcune visite mediche.
Visto che il distretto medico non è lontano dalla mia sede di lavoro una mattina mi sono recato personalmente nell'ufficio di competenza. Lì mi chiedono se avevo alcuni vecchi referti per fotocopiarli. Io avevo scaricato questi referti dal sistema online presente nella mia regione (migliorabile, ma sicuramente da apprezzare), quindi estraggo il portatile, attivo il tethering sul cellulare e chiedo cortesemente l'indirizzo e-mail dell'ufficio per poter inoltrargli questi documenti. Momento di panico, le due segretarie non conoscevano l'indirizzo e-mail, dopo un'attimo d'esitazione una mi propone di mandarle ad un loro indirizzo personale. A quel punto, completamente sconvolto, inserisco il numero di telefono dell'ufficio nel motore di ricerca e come primo risultato compare il link ufficiale al sito del distretto sanitario con la pagina del reparto dove sono reperibili i dati dell'ufficio in questione tra cui l'indirizzo e-mail. Mostro la pagina per controllare che riferisca correttamente a quel reparto e con grande sorpresa le segretarie riconoscono la pagina e l'indirizzo e-mail. A quel punto, inoltro i documenti, e mi viene detto che sarò ricontattato per la prenotazione, mi chiedono un numero di telefono e lascio per sicurezza un biglietto da visita (...speravo in una risposta via e-mail). La giornata scorre senza alcuna risposta, il giorno successivo, sulla via per andare a lavoro mi reco nuovamente nell'ufficio. Le segretarie, molto efficienti, avevano già predisposto l'appuntamento e gentilmente mi chiariscono i vari altri passaggi burocratici, consegnandomi una lettera che stavano per inviare mezzo posta. Le ringrazio in quanto sono state molto gentili e mi reco quindi al CUP sito nella palazzina a fianco. Entro e a sinistra vi sono varie file, con sportelli numerati da uno a otto con un monitor da 32 pollici che mostra alcune informazioni sulla coda. Intuisco che da qualche parte deve esserci un distributore automatico di ticket, torno all'entrata e, fuori traiettoria rispetto agli sportelli, trovo un totem touch screen con dei pulsanti che indicano il tipo di sportello di cui si desidera usufruire. Premo il tasto che indica il servizio di cui voglio usufruire e il ticket viene stampato. Controllo il monitor noto che ho tre persone davanti, per deformazione professionale controllo le informazioni sul ticket. Il numero di persone in coda era già lì riportato così come il mio codice "B026" e il momento esatto in cui ho stampato il ticket. La lettera "B" indica il tipo di servizio e "26" è il valore di un contatore incrementale, analizzando il display noto che potrebbe essere organizzato in maniera migliore in quanto non mostra tutti i servizi offerti (quindi quelli che le persone prenotano) allo stesso momento. I percorsi di service design e l'informatica che hanno segnato la mia formazione universitaria fanno correre la mia mente a fare valutazioni su "customer journey","touch points", "back-end and front-end process" e via discorrendo. Il mio viaggio mentale e la mia analisi, con tutte le possibili soluzioni per innovare e migliorare i processi, durano poco, una signora mi chiede gentilmente di aiutarla in quanto "non capiva nulla" e questo mi riporta di colpo alla dura realtà dei fatti.   Nel successivo quarto d'ora mi sono trovato a spiegare a una manciata di persone tra i 40 e i 70 anni la procedura da seguire per prenotare il servizio desiderato e capire quando sarebbe venuto il loro momento di accesso ad uno sportello. Una signora in particolare ha fatto molte considerazioni riguardo quanto "macchinoso" fosse questo sistema e di come fosse meglio il vecchio sistema delle file. Noto che in parte sono d'accordo, il processo è macchinoso e dovrebbe esserlo meno, ma utilizzando più tecnologia digitale, non meno. Accedo allo sportello 22 minuti dopo aver stampato il ticket, non male. Esco dal distretto sanitario con la prenotazione stampata in mano e mi dirigo al lavoro; sul bus segno la due visite sul mio calendario digitale con l'apposita app sullo smartphone.


Questa esperienza mi ha fatto capire una volta di più che il digitale prenderà veramente piede in questo Paese solo se verrà spinto dall'alto, così come è stato per l'alfabetizzazione. Le persone che capiscono i vantaggi, vogliono e spingono per un'avanzamento sostanziale nel campo digitale sono poche. Con il passare del tempo le nuove generazioni crescono immerse nel digitale, ma la cultura del digitale come religione che miri all'efficienza dei processi e come flusso di nuove opportunità derivanti dai dati e dalle informazioni prodotte e dal continuo (e esponenziale) avanzamento tecnologico è comunque scarsa.



Le impiegate non sapevano l'indirizzo e-mail dell'ufficio, pure essendo molto disponibili e competenti nel loro lavoro, molte persone non riuscivano a capire un semplice processo di prenotazione per uno sportello multi-servizio con un totem touch screen dove era necessario premere un unico pulsane e controllare un monitor. Io già pensavo a cercare una app che mi permettesse di controllare la fila allo sportello e prendere un ticket digitale da remoto, ad avere i tempi medi di accesso allo sportello basati su dati storici e a come migliorare l'interfaccia del monitor che mostrava lo stato delle code. Per finire non c'è un sistema che produca un file .ical / .ics per far sì che l'utente si ricordi degli appuntamenti, si può attivare la notifica SMS, ma questa funzione è sconosciuta ai più e non è minimamente pubblicizzata.

Il succo del discorso è che non sarà sicuramente questa società a sollevarsi in manifestazioni pubbliche per far sì che la PA e il sistema Paese si aggiorni al digitale. E' molto più facile organizzare manifestazioni partecipate su temi quali la disoccupazione, l'IMU, la mancanza di incentivi per l'acquisto di prime case, la diminuzione dell'IRAP o altre tasse che gravano sull'imprese piuttosto che sul tema del digitale. Questo tema non viene quasi mai dibattuto nei salotti televisivi, che restano ancora il principale strumento d'informazione di molti cittadini italiani (Piero d'Angela ha scritto un bel capitolo su questo argomento - lo ho ripreso in questo post). La mia idea è che sia un argomento di nicchia, poco promosso, poco spiegato, che soccombe di fronte agli altri temi che piacciono ai media, perché raggiungono il bersaglio grosso, la pancia della popolazione, quella che porta ascolti, quella che porta share ...giornali e programmi tv (come tra l'altro moltissimi esponenti politici se non per fare uno spot) spesso se ne infischiano dell'importanza oggettiva del tema stesso. 

La maggior parte della popolazione non è minimamente interessata al digitale (solo il 55% della popolazione ha accesso a internet - Dati ISTAT), perché non ha la minima cultura digitale (il 26,5% considera Internet inutile e non interessante - Dati ISTAT), perché non è stata istruita a capirne e apprezzarne i vantaggi, perché il sistema ha posto barriere all'uso del digitale invece che promuoverlo e dulcis in fundo perché sono pressati da problemi che vanno ben oltre (almeno per la loro valutazione) l'importanza di colmare il gap sul digitale. Pochissimi si impegnano per spiegare come il digitale possa essere parte di una soluzione trasversale a molti problemi e spesso raggiungono una piccola fetta della popolazione.

Vi lascio un'esempio, volete pagare il bollo auto online? Sorpresa sorpresa... potete farlo! Aspettate un attimo, solo in undici regioni su venti e pagando una sovrattassa dell'1,2%. Capirete anche voi che non è in questo modo che si favorisce il digitale... da cittadino mi chiederei, dov'è il vantaggio nel processo digitale in questo caso?


Chiudo con un esempio molto semplice di una nazione dove la cultura digitale è stato uno dei tasselli fondamentali della crescita post-sovietica. L'Estonia è internazionalmente riconosciuta per essere all'avanguardia nel campo del digitale. Personalmente, mentre svolgevo il primo anno di master ad Aalto University a Helsinki, ho visitato l'azienda IT che ha realizzato il sistema informativo digitale per le prescrizioni mediche, alla visita erano presenti anche alcuni funzionari del ministero della salute. Perfino i finnici volevano imparare da questo successo del piccolo stato estone. Ebbene la prescrizione digitale ha eliminato il cartaceo e obbligato le farmacie a dotarsi dei device necessari a per far funzionare il sistema informativo. Nel periodo di roll-out del sistema, con un periodo di transizione tra il vecchio e il nuovo, i vari stakeholder venivano istruiti sul nuovo sistema, a partire dai medici, i farmacisti fino ai cittadini quando entravano in farmacia o in altre strutture ospedaliere e para-ospedaliere. Allo stesso tempo è stata fatta una pesante campagna informativa su tutti i media.

E noi come siamo messi? Bè la prescrizione viene ancora fatta su fogli di carta, quando andiamo in farmacia passiamo la tessera sanitaria ma dobbiamo conservare gli scontrini per la dichiarazione dei redditi. Al momento della dichiarazione dei redditi al CAF scannerizzano gli scontrini (o la fotocopia che avete fatto voi per evitare ch si scolorissero) per lasciare una traccia digitale, chiaramente non strutturata poiché solo un'immagine.


   
Forse, sarà solo una mia impressione, la scelta di puntare fortemente e con fermezza sul digitale deve venire dall'alto. Solo con decisioni forti di obbligo e di forte promozione (attualmente vengono invece posti moltissimi disincentivi) si può far sì che la cultura digitale accresca in questo Paese.


PS allo stesso tempo bisognerebbe iniziare degli studi per vedere gli impatti occupazionali sul medio periodo di una rivoluzione digitale. Attualmente ci sono persone che lavorano scannerizzando gli scontrini delle farmacie al CAF, ci sono centraliniste che lavorano al CUP per prendere un appuntamento che potrei prenotarmi autonomamente online (nella mia provincia iniziano a esserci già servizi in questo senso), ci sono persone che contano i soldi, registrano fatture e aggiornano posizioni di pagamento quando qualcuno paga fisicamente il bollo auto. Potrei fare una lista infinita di posti di lavoro che sarebbero pesantemente affetti da una rivoluzione digitale una volta che questa fosse compiuta con l'alfabetizzazione digitale della popolazione (l'esempio del mercato della musica è eloquente). Chi vuole e spinge per la rivoluzione digitale, come la voglio io, dovrebbe sempre tenere conto sia degli innumerevoli impatti positivi, ma anche dei possibili effetti collaterali...



       

giovedì 10 aprile 2014

Risparmio VS Consumo

Ieri sera, mentre cenavo, ho distrattamente ascoltato un telegiornale, un servizio in particolare citava dati ISTAT appena pubblicati, rimarcava come i consumi fossero ancora in calo, mentre i risparmi aumentavano. Il servizio spiegava poi come le famiglie stessero perdendo potere d'acquisto, nonostante la bassa inflazione e quindi sentendo il periodo negativo preferiscano spendere meno e risparmiare dove possibile. Il tutto era presentato con il classico disfattismo che enfatizza le pubblicazioni ISTAT su materie economiche negli ultimi anni. Al che mi sono detto, questo è un Paese strano, tutti vogliono i consumi mentre i padri costituenti ci hanno consigliato di scegliere il risparmio, facendo sì che lo Stato lo agevoli. Come direbbe Crozza siamo nel Paese delle meraviglie.

Art. 47.
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito.
Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Con l'andare degli anni probabilmente la Costituzione è "sbiadita", in quanto tutt'oggi tra tutti coloro che rappresentano questo Paese, dal governo al parlamento, la parola d'ordine è far ripartire i consumi. Non sono un'economista ma sul vocabolario dei sinonimi e dei contrari alla voce risparmio trovo come primo contrario consumo. Del resto è evidente che consumando qualcosa non la risparmio e se la risparmio non la consumo.

rispàrmio s. m. [der. di risparmiare]. –
a. Il fatto di risparmiare, di astenersi cioè dall’usare, dal consumare una cosa posseduta o di limitarne l’uso per varie ragioni o scopi;
b. Con valore concr., il denaro messo da parte risparmiando;

Ad ogni modo, non senza fondamento, chi ci governa ci racconta sempre la storia della crescita. I consumi aumentano la produzione, che a sua volta genera posti di lavoro che infine generano nuovi consumi e non tralasciamo nuove tasse incassate per l'erario. Molti degli stessi politici hanno però affermato che un'aumento di PIL inferiore al 2% non genera alcun nuovo posto di lavoro, poiché l'avanzamento tecnologico soddisfa già questo aumento marginale di domanda. La catena, almeno per come la pensa il sottoscritto qui si inceppa.



E' sufficiente pensare a un contesto quotidiano, basta immaginarsi una famiglia tipo, dove la mamma cucina per tutti; se un giorno il figlio invita qualcuno a cena, non vi sarà un altro cuoco, la mamma aumenterà semplicemente le dosi del pasto. Questo finché l'aumento di produzione necessario a sopperire la domanda è coperto dai macchinari già in dote all'azienda (in questo caso la classica pentola per fare la pasta). Se invece di chiamare un amico il figlio di questa signora chiamasse tutta la sua squadra di calcio, e la cosa si ripetesse regolarmente, probabilmente la signora dovrebbe acquistare una pentola più capiente, ma rimarrebbe sempre e solo lei a cucinare. Avrebbe fatto un investimento in "macchinari", non in forza lavoro. Certo, l'indotto generato dall'aumento di pasti potrebbe aver dato lavoro a un garzone per un'ora al giorno per servire i pasti e ripulire il tutto, ma quello che si evince è che l'aumento di posti di lavoro è molto meno che proporzionale rispetto all'aumento della domanda (e quindi dell'aumento dei consumi). In alcuni casi, come quello della distribuzione della musica, nel mondo digitale, l'aumento di posti di lavoro è quasi insignificante all'aumentare anche esponenzialmente della domanda di un certo brano o album (ne ho parlato in questo post).

Abbiamo quindi concluso che il consumo genera sì posti di lavoro, ma che tale processo è tutt'altro che automatico e proporzionale. Veniamo ora alle misure implementate dal governo per influenzare i cittadini a consumare, partiamo dall'aumento dell'IVA ordinaria che in poco tempo è andata dal 20% al 22%. Questa è sicuramente una misura che ha avuto un'effetto contrario all'aumento dei consumi, per il semplice fatto che un aumento dei prezzi mantenendo fermo il potere d'acquisto porta alla diminuzione della domanda, in varie forme e in base all'elasticità della domanda del bene specifico. Questa misura è inoltre iniqua poiché non differenzia i consumatori e quindi l'applicazione della tassa in base alla possibilità contributiva del cittadino. A controbilanciare l'aumento dell'IVA ci sono i famosi 80 euro mensili in busta paga per i redditi da lavoro dipendente inferiori a 25 mila euro (cifra approssimativa del lordo annuo). Questa manovra mira quindi a mettere soldi nelle tasche degli italiani con la speranza che gli spendano. Se questi soldi vengono spesi generano infatti una nuova entrata per l'erario. Allo stesso tempo lo Stato decide di tassare il risparmio portando la la ritenuta fiscale un investimenti diversi dai titoli di Stato dal 20% al 26%, lasciando invece invariata la percentuale relativa a quest'ultimi al 12,5%. Il messaggio è abbastanza chiaro, se volete investire (risparmiare) acquistate titoli di Stato, visto l'elevato debito pubblico italiano è sempre bene fidelizzare i risparmiatori; altrimenti alimentate i consumi.



Il problema è che non si può incoraggiare allo stesso tempo il risparmio e il consumo, delle due l'una. Ogni tanto spunta un'altra opzione per far cassa, la "patrimoniale". Premesso che una sorta di patrimoniale già esiste, quando la si nomina viene proprio da pensare che la tutela del risparmio proprio non esiste. Pensiamo per un secondo a due persone che fanno lo stesso lavoro e pagano regolarmente le tasse, una ha passato la vita risparmiando per quando andrà in pensione, per sé e per la propria famiglia; l'altro invece ha passato la sua vita a spendere il suo stipendio in frivolezze e sfizi mantenendo uno stile di vita al di sopra delle sue possibilità, senza aver mai risparmiato un soldo, con il conto corrente che oscilla spesso attorno allo zero. Applicando una patrimoniale, il primo dovrebbe pagare una somma ingente, mentre il secondo non dovrebbe pagare alcunché. Il fatto, per l'immaginario comune è ingiusto, pensando invece in termini di contributo alle spese dello Stato la situazione è un leggermente diversa. La "cicala" che spende il suo reddito in sigarette, bar, prodotti elettronici all'ultimo grido e via dicendo, garantisce un'entrata molto elevata all'erario. La "formica" che risparmia fa entrare invece molto poco nelle casse del Paese. Ipotizziamo che entrambi abbiano un conto corrente e un dossier titoli, se la "cicala" spende 1000 euro in sigarette versa ad oggi 180 euro circa all'erario (IVA al 22%), generando altresì lavoro per coloro che producono e distribuiscono sigarette. La "formica" che investe 1000 euro in buoni postali al 3% lordo, frutta allo Stato circa 6 euro, ossia la ritenuta fiscale sul capital gain al 20%. Non solo "la formica" ha generato un gettito minore per le casse statali, ma allo stesso tempo non ha dato lavoro a nessuno, in quanto l'acquisto e la gestione dell'obbligazione postale se l'è fatta da solo tramite l'home banking, creando quindi un aumento insignificante della necessità di lavoro umano. Chiaramente, i soldi risparmiati dalla formica generano la possibilità del credito a terzi, ossia cicale che a loro volta prendono a prestito denaro per alimentare i consumi, il che è però un fatto non automatico e del tutto aleatorio, senza contare che questi individui potrebbero essere stranieri e quindi non spendere nemmeno un centesimo in Italia!

Risulta quindi chiaro che nel breve-medio periodo il risparmio è una fattispecie negativa per lo Stato, in quanto genera un minore gettito, quindi meno risorse a disposizione per effettuare politiche di qualsivoglia genere. Più si va sul lungo periodo più l'effetto negativo andrà scemando in quanto i soldi risparmiati, prima o poi verranno spesi, o, ad ogni modo, la probabilità che vengano spesi aumenta, pur non avendone alcuna certezza. Da tutto ciò si evince che per favorire la crescita i consumi sono necessari, e dato che i consumi sono l'esatto contrario dei risparmi o i padri costituenti poco meno di settant'anni fa hanno scritto una scemenza, oppure il sistema socio-economico così come si è evoluto mina uno dei dettati costituzionali, quello che semplificando  richiamava la lezione che si fa ai bambini con la storiella della cicala e della formica ...delle due l'una. 
    

giovedì 3 aprile 2014

Il mercato della musica, un esempio di come i posti di lavoro spariscono silenziosamente

Vi ricordate la musicassetta? Molti risponderanno "sì" eppure per le nuove generazioni nate a cavallo del nuovo millennio, potrebbe essere un oggetto che hanno distrattamente visto solo nei centri commerciali o negli auto-grill accatastate in grandi espositori come fossero materiale da vendere al chilo. Questa introduzione ad altri farà invece tornare alla memoria ricordi di un'adolescenza diversa dove la musicassetta era il supporto principe per la distribuzione e l'ascolto della musica. Ebbene, io la ricordo molto bene, mi ricordo questo piccolo box di plastica con all'interno il nastro magnetico che, mosso da meccanismi fisici, scorreva riproducendo la mia musica preferita. Già, perché anche da adolescente amavo la tecnologia e componevo le mie compilation con le canzoni che più mi piacevano in un preciso momento. Ricordo ancora quando chiedevo ai miei genitori di comprarmi le cassette vergini, volevo de TDK da 90 minuti, le più capienti e con la custodia affusolata. A quel punto con il mio stereo a doppia piastra costruivo man a mano il mio mix, in un continuo scambio di cassette nella piastra A (acquistate alle fiere di paese o nel mio negozio di musica preferito) e un loop interminabile di PLAY-RECORD-FF. Alla fine avevo la mia musicassetta con il mio mix personale, alla quale applicavo le etichette che avevo scritto con cura e nella custodia inserivo il classico resoconto dei titoli: lato A e lato B. Ho riascoltato quelle musicassette ore ed ore, anche con il mio fedele Walkman. Ogni tanto ricordo ancora i momenti in cui il nastro usciva e con calma lo riavvolgevo all'interno della musicassetta con una matita. Mia mamma usa ancora alcune di queste musicassette...
La musicassetta fu immessa nel mercato nel 1963 dalla Philips (che vent'anni dopo introdusse anche il CD). Fu quella che oggi definiremmo una "disruptive innovation" in quanto rivoluzionò il mercato della musica. Il supporto utilizzato precedentemente, il disco in vinile, aveva molte limitazioni alle quali la musicassetta apportò un rimedio. Tuttavia i dischi in vinile esistono come mercato di nicchia tutt'oggi, secondo esperti e audiofili la loro qualità è addirittura superiore alle tracce audio registrate in formato FLAC. Ad ogni modo possiamo dire che la musicassetta ha sostituito in gran parte il disco in vinile così come il CD ha poi sostituito (in gran parte) la musicassetta. All'inizio degli anni novanta un gruppo di esperti presieduti da un italiano, Leonardo Chiariglione, sviluppa la codifica che poi sarebbe diventata popolarissima con l'estensione "MP3". Quella fu in tutti i sensi una "disruptive innovation"! Il mercato non era ancora pronto per quell'innovazione, negli anni '90 anch'io, come molti, continuavo ad acquistare musicassette e CD. Le fabbriche che producevano musicassette potevano essere convertite alla produzione di CD così come coloro che producevano il package, artwork e per i negozi e le bancarelle il cambio di formato non cambiò sicuramente molto la vita. Siamo alla fine degli anni novanta, l'era di Napster e del P2P che inizia progressivamente a minare il mercato della musica per vie illegali. Il P2P è solo il preludio di un cambiamento epocale. Le infrastrutture sono mature e la tecnologia pure, Apple lancia quella che fino ad ora è ricordata come il suo successo che maggiormente ha cambiato un mondo, quello che interessò proprio il settore della musica. Sto parlando di iTunes Store e dell'iPod. Il tipico esempio per spiegare che innovazione non è sinonimo di invenzione. Molti avevano già lanciato prodotti simili all'iPod che potevano riprodurre file musicali e alcuni avevano tentato di aprire un e-commerce basato sul settore musicale. E' il 2001, Steve Jobs stava lanciando qualcosa di molto più che un prodotto, aveva concretizzato una visione, aveva creato un'ecosistema che di lì a poco avrebbe portato iTunes Store ad essere il maggior distributore di musica a livello globale.



Prima di tornare al presente, fermiamoci a qualche anno fa, prima che nascessero servizi come Spotify o Grooveshark e simili. Prendiamo ad esempio un adolescente all'inizio di questo decennio, appassionato di tecnologie come lo ero io vent'anni fa (e come lo sono tutt'ora) ha le mie stesse passioni, gli piace la musica, e vuole avere le sue canzoni preferite sempre con se. Questo ragazzo probabilmente acquista gli album dei suoi artisti preferiti online pagando digitalmente, ha la sua collezione musicale organizzata in un software apposito e forse la salva anche nel cloud. Quando vuole fare un mix dei diversi album acquistati, crea virtualmente una nuova playlist a cui dà un nome, seleziona le canzoni che vuole aggiungerci e il gioco è fatto. Il software stesso crea playlist per lui basandosi su storico e statistiche risparmiandogli a volte anche questo passaggio. Quando questo ragazzo è a casa, indipendentemente dalla stanza in cui si trova, può ascoltare tutta la sua libreria musicale utilizzando Smart TV, iPad o semplicemente casse acustiche collegate al WiFi di casa che riproducono la musica dal NAS condiviso in rete. Quando non è a casa questo ragazzo ascolta la musica grazie al suo smartphone che collegandosi in WiFi alla rete casalinga sincronizza le canzoni da aggiungere e togliere in base alle preferenze settate sulla libreria, senza neppure richiedere un'operazione da parte sua. Quando sale in macchina collega il suo smartphone al sistema di infotainment e controlla i suoi brani preferiti direttamente dal volante. Pensate che alcuni tra i più moderni portatili vengono addirittura venduti senza lettore/masterizzatore CD/BluRay in quanto tale strumento sta effettivamente diventando anacronistico.



Analizzando le differenze tra me e questo ragazzo immaginario a differenza di vent'anni possiamo notare parecchie differenze. In primo luogo questo ragazzo non acquista la musica sulle bancarelle e nemmeno in negozi specializzati, perché anche cercandone difficilmente ne troverebbe! Effettua invece acquisti online facendo così scomparire la necessità del contante, degli scontrini fisici, di tenere dei registratori di cassa, di contabilizzare in maniera fisica entrate e uscite, cancellando cioè tutte quelle operazioni che venivano svolte da qualcuno. Una volta effettuato l'acquisto la musica è disponibile sul device (e a volte addirittura nel cloud personale) nel giro di qualche minuto, chiaramente in base al tipo di connessione. Questo ragazzo non è andato in macchina al negozio, non ha preso un bus pubblico, no, non ha nemmeno consumato la suola delle scarpe! A parte il sarcasmo, quell'album acquistato non è stato registrato su un supporto, non è stato confezionato in un package, non vi è stata apposta una copertina, o marchio SIAE, non è stato trasportato dal centro di produzione ai vari centri di distribuzione e non è stato nemmeno consigliato dal commesso di turno. C'è di più, il fatto che quel determinato album venga acquistato una, cento o dieci milioni di volte ha un effetto pressoché nullo sui costi di produzione e di distribuzione (e quindi sulla relativa occupazione). Quel file verrà infatti ospitato da dei server che all'aumentare delle richieste allocheranno maggiori risorse in maniera automatica per soddisfare tali richieste, tutto qui. In definitiva possiamo osservare che l'occupazione nel settore è crollata, semplicemente per il fatto che molti processi intermedi tra la domanda e l'offerta sono scomparsi e soprattutto non sono più strettamente dipendenti dalle vendite come numero assoluto!



Qualcuno potrebbe obiettare che il digitale, e quindi il comparto del digitale che tratta la musica, ha creato moltissimi posti di lavoro. Probabilmente sentirete molti esperti e studiosi dire che ogni posto di lavoro nell'ICT ne genera 5 nell'indotto e che vi sono studi e perizie che lo confermano. Io non dico assolutamente che si sbagliano, lavoro nel digitale, queste rappresentazioni mi fanno piacere; sarebbe però giusto calcolare anche quanti posti di lavoro sono stati tagliati da ogni posto di lavoro nell'ICT. Apple, che gestisce l'iTunes Store occupa  circa 80.000 lavoratori in tutto il mondo ("Apple's Jobs creation". Apple.com. November 30, 2013. Retrieved November 30, 2013.). Spero che possiamo tutti convenire che non tutti siano impiegati nella gestione dell'iTunes Store per la parte musicale, ma supponiamo per un momento che lo siano. Vi dò altri numeri:


"On October 10, 2012, the iTunes Store was reported to have a 64% share of the online music market, and a 29% share of all music sales worldwide."

["iTunes Dominates Download Market & Streaming Audio Grows". CEPro.com. October 10, 2012. Retrieved October 16, 2012.]

Questo significa che circa 3 canzoni su 10 nel mondo sono distribuite con successo e acquistate tramite una piattaforma praticamente automatica o self service, che viene mantenuta da un numero di addetti minore di 80.000. Certo, tutta l'opera di creazione delle opere musicali, così come le artwork e il marketing esiste ancora anche se molto più evoluto che vent'anni fa. Ciò non cambia la conclusione che moltissimi posti di lavoro sono spariti, qualcuno direbbe in maniera silenziosa, senza serrate, senza scioperi senza che la comunità ne parli.

Arriviamo ora ai giorni nostri, nuovi servizi basati sulla musica hanno da poco debuttato sul mercato con un discreto successo, Spotify è forse l'esempio migliore. Questi attori hanno innovato la cultura della musica spostando il concetto dal possesso (compro un album perché sia mio) alla fruizione (noleggio una canzone per il tempo dell'ascolto) utilizzando pacchetti formule free e premium, il tutto ovviamente reso possibile sempre dalla tecnologia (non dimentichiamolo). In inglese tradurremmo questo processo in "servitization" e non è certo nuovo all'economia. Fatto sta che questa innovazione nel mercato della musica ha creato nuove forme di introito, quello che mi chiedo è se avrà creato nuovi posti di lavoro. Per "nuovo" intendo una variazione positiva della bilancia occupazionale, non che vi siano semplicemente lavori fino a poco tempo prima non praticati.

"La gente continuerà ad acquistare musica" (diceva Steve Jobs), il mercato potrà essere in calo o in crescita, indipendentemente da ciò gli occupati che fanno girare quel mercato e fanno sì che la domanda sia soddisfatta oggi sono meno di vent'anni fa e se possibile saranno ancora meno a breve. Del resto questo cambiamento lo abbiamo visto nella storia, basta controllare un grafico degli impiegati nei vari settori produttivi per notare come la tecnologia ha mano mano eroso posti di lavoro, ad iniziare dai lavori manuali, sostituendo quindi la forza, l'agricoltura è un facile esempio, per poi automatizzare processi industriali fino ai giorni nostri quando la tecnologia va a sostituire mano a mano compiti sempre più specifici e di intelletto anche nel terziario.